Un caso di doping nel rugby azzurro Ma è stato nascosto

da Roma

La notizia ha fatto sollevare le scrivanie della federazione. Un azzurro positivo per cannabis proprio nell’immediata vigilia della partenza della nazionale per la Coppa del Mondo. Ricostruiamo i fatti: gli azzurri, nel ritiro in Val d’Aosta, si sottopongono a una serie di analisi di prassi, tese ad accertare da un lato lo stato di salute dell’atleta e dall’altro la rispondenza dello stesso ai protocolli antidoping. Sono analisi di routine, come hanno spiegato dallo staff azzurro, ma necessarie per evitare sorprese con la tenaglia dell’antidoping francese. Dopo qualche giorno la decisione di rimandare a casa un giocatore, il pilone del Parma Fabio Staibano, ufficialmente perché non in forma per affrontare un impegno come il mondiale. Adesso però è facile associare quell’esclusione alla scoperta che un azzurro è stato escluso dalla nazionale perché risultato positivo al doping, anche se poi la federazione non ha segnalato l’irregolarità alla Procura antidoping.
Una brutta tegola, insomma, sulla testa della Fir. In quelle analisi «private» erano presenti i metaboliti di cannabis. Doping sociale. Non così grave quindi, ma sempre doping. Di quei risultati, la Fir ed in particolare il manager della nazionale e lo staff di Berbizier ne erano a conoscenza. All’interno della Fir c’è chi dice che anche il presidente della Fir sapeva. E ieri Giancarlo Dondi è andato dai vertici del Coni per trovare una linea comune. «Di questa cosa non ne ero a conoscenza - ha ribadito il lider maximo del rugby italiano -. Sapevo solo che il giocatore era stato mandato a casa perché aveva dei risultati ematici sballati e dei problemi di ordine muscolare».
Versione che trova conferma nelle parole di Andrea Cavinato, l’allenatore dell’Overmach Parma: «Quando mi hanno rimandato Staibano, mi hanno detto che le analisi avevano evidenziato valori sballati che andavano a influire sulle sue prestazioni muscolari. Valori che ne avrebbero compromesso l’utilizzo durante il mondiale. Si sono raccomandati di tenerlo a riposo per 10 giorni e poi di continuare a farlo allenare».
Delle due l’una. O il presidente Dondi sapeva, oppure lo staff della nazionale ha mentito al presidente nel cercare di tenere nascosta una realtà esplosa a scoppio ritardato. In federazione si insiste a dire che la questione era nota solo allo staff e al manager e a sorprendersi del perché la storia sia venuta alla ribalta. Dondi nella mattinata di ieri ha ricevuto una relazione dal medico della nazionale, il dottor Melegati, in cui si ripercorre tutta la storia delle analisi. Relazione girata via fax alla Procura antidoping del Coni che ha acquisito la notizia dell’illecito agli atti. Analisi private, dunque. I cui risultati non permetterebbero di deferire il giocatore. Procura che potrebbe però attivarsi nei prossimi giorni. Resta tuttavia la sensazione del «far finta di niente» del management azzurro di fronte al problema, condita con la bugia del problema muscolare che sarebbe stata la causa della mancata convocazione per il mondiale. Doping sociale oppure no, resta evidente l’approssimazione con la quale è stato trattato il caso. Se ci sono «valori ematici sballati» nel sangue di un giocatore, di solito non ci si limita a rispedirlo a casa. Si indaga, si approfondisce. E c’è poi un altro aspetto del problema, quello politico.

Dopo il flop azzurro al mondiale culminato con l’occasione perduta a Saint Etienne contro la Scozia, è già scattata la resa dei conti fra le varie anime all’interno della Fir. E l’atleta non può essere il capro espiatorio di una guerra di corte, anzi di cortile.

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