Dopo una nave gigantesca, sull’Isola del Giglio si sta incagliando pericolosamente anche il nostro senso della giustizia. Già sembra di vedere questo secondo relitto, sinistramente adagiato su un fianco, irrimediabilmente perso. Purtroppo, l’onda emotiva sollevata da una manovra stupida e giocherellona sta spazzando via tutti i princìpi base della nostra antica civiltà. Siamo assetati di sangue, quanto meno di manette e di punizioni sommarie, perché finalmente non ci pare vero di sfogare tutte le nostre rabbie, le nostre frustrazioni, le nostre paranoie su un bersaglio comodo e facile, comodo e facile come può essere l’odioso comandante che prima gioca agli inchini, poi cerca di nascondere il disastro, infine scappa come un coniglio verso approdi più sicuri, lasciando in balìa del destino vecchiette, bambini e handicappati.
Certo, l’abbiamo davanti così, l’indifendibile comandante Schettino. Ci prudono le mani, vorremmo vederlo passare con la testa e le mani nella gogna, come usava secoli fa, in mezzo a due ali di folla che sputa e deride. Considerata l’entità della strage innescata dalle sue funamboliche evoluzioni a duecento metri dal porto, considerato il dolore inflitto a una quarantina di famiglie, considerato il terrore somministrato a quasi quattromila turisti, è proprio così che istintivamente lo vorremmo subito vedere. Via Internet si leggono le ingiurie più atroci. Noi dei giornali ci stiamo andando giù pesanti. La stessa Procura respinge sdegnosamente la decisione del Gip di rinchiudere il comandante codardo in casa sua: l’accusa avverte chiaramente il momento buono, sa di avere alle spalle la massa furente dell’opinione pubblica, dunque non trova nulla di sconveniente nel dire papale papale che la decisione del Gip è sbagliata, inspiegabile, inaccettabile, tanto da ispirare subito il ricorso, nonostante lo stesso Gip dica di Schettino - meglio, della sua magica serata - peste e corna.
S’è fatto un clima così, di processo per direttissima, ma in strada, sui due piedi, in televisione, sul Web, persino nei corridoi dell’indagine iniziale. Sembra quasi che rispettare i riti e le garanzie della legge sia fastidioso, anzi dannoso, perché sappiamo già tutti com’è andata, dannazione, e allora che aspettiamo a finire quel disgraziato?
La chiamano gogna mediatica, ma possiamo definirla giustizia fai-da-te. Ci sono momenti e situazioni in cui le emozioni sono talmente forti da rendere difficile l’autocontrollo, l’equilibrio, il rispetto. Eppure sarebbe proprio questo il momento di fare lo sforzo. Sarebbe questo il momento per dimostrare che secoli di civiltà non sono trascorsi invano, finendo miseramente ad infrangersi sugli scogli di un’isola. Sarebbe il momento, persino davanti all’indifendibile Schettino.
Se davvero l’Italia vuole dimostrarsi meno cialtrona di quel comandante, comunque un po’ più seria, deve smontare subito la forca e imparare ad aspettare. Il Paese normale che tutti diciamo di voler ripristinare, quello in cui un De Falco non è eroe, ma servitore dello Stato nel pieno esercizio dei suoi doveri, quello in cui - lo stiamo ripetendo fino alla noia - non è eroe, ma semplicemente normale, chi paga le tasse, chi si ferma al rosso, chi ogni giorno fa il proprio dovere al posto suo, proprio questo Paese che rivogliamo essere deve per prima cosa ritrovare da qualche parte l’alto senso della giustizia. Lo deve ritrovare la platea, che non può pretendere a narici fumanti una sentenza sommaria sulla pubblica piazza, e lo deve ritrovare la magistratura, che non può pensare di trasformare pure la tragedia della Concordia in una svaccata maratona con verdetto definitivo tra una decina d’anni, o anche più.
Senza eccessi e senza strepiti, dobbiamo riuscire là dove falliscono gli Schettino, considerando sacre certe regole, considerando sacra la vita umana, considerando sacro il rispetto, persino nei confronti dei peggiori. Dall’aria pesante che si respira in questi giorni, l’operazione sembra altamente proibitiva.
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