Cento sfumature di (anti)fascismo. L'arte di fare arte sotto il Regime

Le cose non sono tutte nere o tutte rosse. Ecco qualche esempio dalla zona grigia, da Montanelli a Delfini e Berto

Cento sfumature di (anti)fascismo. L'arte di fare arte sotto il Regime

Il libro di Vittorio Sgarbi dedicato ad Arte e fascismo (La nave di Teseo) ha dato vita a un ampio dibattito, rilanciato anche dalla omonima mostra in corso al Mart di Rovereto fino al 1° settembre. Sui social media del critico e del suo editore possiamo trovare, in questi giorni, pillole a suffragio della tesi principale del volume: l'arte va sempre oltre la propaganda, perfino quando nasce con l'intento di fare propaganda.

Vi consigliamo di partire dal video dedicato a Giorgio Morandi. Le nature morte (ma vivissime e penetranti) del pittore bolognese esprimono, per via indiretta, un implicito rifiuto delle ragioni del Fascismo. Le opere di Morandi sono contrarie alla retorica, anche se monumentali, a modo loro: in scala ridotta. Non diremmo che l'arte di Morandi è politica. Eppure lancia (anche) un messaggio politico, esprime una opposizione naturale al Regime.

Da questa e altre storie raccontate da Sgarbi, possiamo trarre innanzi tutto una conclusione. Si fa presto oggi e purtroppo anche allora ad affibbiare la patente di fascista o quella di antifascista. In realtà, se diamo retta alle testimonianze di chi si trovò a fare arte o letteratura nel Ventennio, capiamo subito che le cose sono molto (ma molto) più sfumate e spesso non giustificano giudizi sommari. Questo non significa recuperare il Fascismo, cosa impossibile sotto ogni punto di vista: storico e morale. La condanna è ferma ma bisogna pur capire cosa accadde.

Facciamo qualche esempio, andando a pescare nella zona grigia, dove i colori non sono netti. Il fascismo fu la grande occasione per Arturo Martini. Finalmente qualche commissione ben pagata. La sua adesione al regime finiva qui. Prima era squattrinato. Dopo aveva qualche banconota nel portafogli. Fu aggiunto alla lista dei collaborazionisti. Alla fine della guerra, andava al ristorante con una pistola in tasca, lo racconta il suo amico Giovanni Comisso. Lo scultore decise di ritirarsi a Vado Ligure, località dove, durante il conflitto, lavorava in una fabbrica di armamenti. Morì poco prima di trasferirsi.

Martini, in sostanza, non si era dissociato. Già, ma chi lo aveva fatto realmente? Qui ci aiuta il grande Antonio Delfini. La Introduzione al Ricordo della Basca e i suoi Diari sono opere imprescindibili anche dal punto di vista storico, per capire un ambiente. Delfini spiega che gli antifascisti non fecero nulla per far cadere il regime, con il quale avevano silenziosamente ma felicemente convissuto. A far cadere il regime furono piuttosto i fascisti: Dino Grandi, Giuseppe Bottai, Galeazzo Ciano e gli altri che votarono l'ordine del giorno del Gran Consiglio sfavorevole a Mussolini. Non è affatto una tesi balzana. Indro Montanelli, per fare un nome, la pensava allo stesso modo. Secondo Delfini, gli intellettuali antifascisti si erano semplicemente organizzati per raccogliere il potere alla fine del Regime. Quali intellettuali? Delfini cita Eugenio Scalfari, Mario Pannunzio, Gian Carlo Fusco e tutto il giro del caffè delle Giubbe Rosse, a Firenze. Lui, Delfini, era stato fascista prima di tutti e antifascista prima di tutti. Sempre fuori tempo, condannato al silenzio in vita e anche in morte.

Nei Diari, troviamo appunti come quello del 15 marzo 1937: «C'è troppa affinità letteraria tra intellettuali fascisti e intellettuali avversari, perché si possa credere nella nascita di qualcosa di grande da quelli». Ecco poche righe in cui c'è la storia d'Italia: «Dopo il 25 luglio (1943, giorno della caduta di Mussolini, ndr) venni a sapere, con mia meraviglia, che tutti quegli Antifascisti (ma fascisti o fascistizzati) avevano lavorato loro, soltanto loro, per far cadere il fascismo. Io temo di intuire che essi si erano organizzati per l'eventuale caduta del fascismo; e non per far cadere il fascismo. Siamo giusti. Il fascismo l'hanno fatto cadere gli Inglesi (filo-fascisti fino al 1935), gli Americani, i Russi e i Fascisti meno stupidi e meno delinquenti». Conclusione sarcastica: «Quanto alla massa degli Antifascisti - via, siamo franchi: apriamo il nostro cuore! - la loro innocenza per la caduta del fascismo è quasi completa».

Altro caso. Pier Paolo Pasolini era troppo giovane per conoscere la vita fuori dal Regime. Era cresciuto nel fascismo. Eppure maturò prestissimo un discreto ma deciso dissenso, che poté esprimere con ovvia prudenza. Non ebbe timore, di ritorno da un Congresso universitario a Weimar, di scrivere che l'arte non poteva piegarsi alla propaganda. In seguito fu antifascista convinto ma seppe anche vedere i limiti dell'antifascismo «archeologico»: «Ecco perché buona parte dell'antifascismo di oggi, o almeno di quello che viene chiamato antifascismo, o è ingenuo e stupido o è pretestuoso e in malafede: perché dà battaglia o finge di dar battaglia ad un fenomeno morto e sepolto, archeologico appunto, che non può più far paura a nessuno. È insomma un antifascismo di tutto comodo e di tutto riposo» (così disse in una famosa intervista rilasciata a Massimo Fini).

Abbiamo citato di sfuggita Montanelli. Anche il fondatore del nostro Giornale ha una storia esemplare: giovane innamorato del Duce, collaboratore dell'intransigente rivista L'Universale di Berto Ricci, uomo deluso dal Regime e infine oppositore dello stesso.

Giuseppe Berto, autore del capolavoro Il male oscuro, fu fascista convinto fino alla sconfitta disastrosa in Africa. In trincea scoprì le falsità e la miseria del Regime. Non volle collaborare con gli Alleati e fu rinchiuso in campo di concentramento. Nel 1955 pubblicò il suo diario libico Guerra in camicia nera. Credeva i tempi fossero maturi per una riflessione onesta sul Ventennio. Che incredibile ingenuità. La repubblica delle lettere lo mise al bando. Per giunta, Berto non volle mai dichiararsi antifascista, preferiva afascista. Anche questa posizione fu duramente criticata. Berto non fece passi indietro: non poteva dirsi antifascista in un Paese dove l'antifascismo coincideva con il comunismo. Una colossale menzogna diffusa con successo dalla propaganda comunista, che riuscì e ancora riesce a oscurare il contributo alla Resistenza offerto da militari, liberali, cattolici e anarchici.

In fondo Berto sottolineava ciò che è ovvio in tutto il mondo tranne in Italia e (forse) in Cina, a Cuba e in Venezuela: per far parte della famiglia democratica e liberale è indispensabile essere antifascisti e anticomunisti.

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