Cgil e Br: Epifani dica la verità

Ho stima di Epifani, il leader della Cgil. E capisco le sue difficoltà odierne, con l'inchiesta sulle nuove Br, zeppe di iscritti al sindacato. Ma proprio perché lo stimo, e pur sapendo che in una struttura con milioni di tesserati può infiltrarsi chiunque, gli dico che sarebbe più credibile se raccontasse per intero la verità sulla Cgil e il terrorismo di sinistra in Italia

Ho stima di Guglielmo Epifani, il leader della Cgil. E capisco le sue difficoltà odierne, con l'inchiesta sulle nuove Brigate rosse, zeppe di iscritti al sindacato. Ma proprio perché lo stimo, e pur sapendo che in una struttura con milioni di tesserati può infiltrarsi chiunque, gli dico che sarebbe più credibile se raccontasse per intero la verità sulla Cgil e il terrorismo di sinistra in Italia. Da giorni Epifani ripete che la Cgil è sempre stata un baluardo fondamentale nella lotta al terrorismo. Purtroppo, non è andata così. Ho seguito sin dai primi passi il cammino dell'eversione armata e l'emergere delle Brigate rosse. All'inizio, nel 1970, la Cgil, come il Pci e il Psi, sostenne che avevamo di fronte un terrorismo fascista, mascherato di rosso. I comunicati sindacali ruotavano sempre sul tema della «provocazione», poi diventata «oggettiva provocazione». Chi affermava il contrario era anche lui un provocatore, al servizio del padronato.
Fu l'errore che generò tutti gli altri. Nel 1974, quando le Br uccisero due missini a Padova, le loro prime vittime, anche la Cgil si sdraiò sulla teoria che il delitto era il frutto di una faida interna al neofascismo. Due giorni dopo, le Br rivendicarono l'azione. Ma neppure allora il sindacato volle arrendersi alla realtà.
Il secondo errore fu persino più grave. Allorché risultò chiaro che le Br appartenevano all'album di famiglia della sinistra, si passò alla formula dei «compagni che sbagliano». Una litania ripetuta di continuo, in opposizione a quella del «complotto padronale». A chi parlava di congiura del capitalismo, si rispondeva: «No, i brigatisti fanno parte del movimento e sono recuperabili».
Piero Fassino, uno che si è battuto davvero contro il terrorismo e in una città come Torino, mi spiegò che quelle posizioni, entrambe sbagliate, erano «come due anime sempre presenti non soltanto nel sindacato e nella sinistra in generale, ma nel Pci». Per restare a Torino, martoriata dalle Br, ancora nel 1977 la Cgil, sempre non da sola, rifiutava la realtà. Dice Fassino: «Una parte del Pci sottovalutava l'ampiezza e la pericolosità dell'attacco terroristico. La Dc sembrava paralizzata. Gli altri partiti non andavano al di là degli ordini del giorno di condanna. Il sindacato era tutto preso da problemi diversi: la polemica sui sacrifici, l'austerità, le tariffe. E la sua tendenza a sottovalutare, e a dire “Sono compagni che sbagliano”, continuava a essere fortissima».
Rammento bene quel 1977 a Torino. Il 16 novembre le Br spararono a Carlo Casalegno, che poi morì. Per la prima volta, il sindacato si decise a uno sciopero: di un'ora sola. Ma lo sciopero fallì. Ho conservato il volantino che lo proclamava. Era firmato da Cgil, Cisl e Uil e definiva l'attentato a Casalegno «l'ennesimo atto di terrorismo di stampo fascista». Seguiva un bla-bla sulla «strategia autoritaria della tensione» e sul riemergere di «forze oscure». Persino il consiglio di fabbrica della Stampa scrisse di «un vile atto di chiara marca fascista».
Il giorno dopo l'attentato, andai a un cancello di Mirafiori per interrogare gli operai di due turni della Fiat. Emerse che non pochi erano d'accordo con le Br. Uno mi disse: «Dieci, cento, mille Casalegno». Quando l'articolo uscì su Repubblica, i tre sindacati s'infuriarono, accusandomi di stabilire un collegamento fra terrorismo e lotte operaie. Cgil, Cisl e Uil diffusero un comunicato duro, tutto centrato su un concetto da capogiro: «Unilaterali sottolineature di verità parziali corrono il rischio di tradursi in falsi generali».
Alla Quinta Lega della Mirafiori, quella dei metalmeccanici, guardavano storto i giornalisti «non in linea». Il 10 dicembre 1977, ci fu anche un dibattito indetto da Cgil, Cisl e Uil con i cronisti, ma non condusse a niente. Una parte del sindacato sosteneva (cito ancora Fassino) «che il terrorismo si combatteva soltanto con le riforme sociali, le tariffe giuste, l'equo canone... E c'era chi aggiungeva: se sconfiggiamo il padrone, sconfiggiamo il terrorismo».
Nel 1978 le Br rapirono Aldo Moro e in molte assemblee sindacali si sentì dire: «Moro è il simbolo di questo Stato, lo Stato dell'affare Lockheed, di Sindona, degli evasori fiscali, e noi dovremmo difenderlo?». Qualcosa cambiò soltanto nel gennaio 1979, quando le Br uccisero Guido Rossa a Genova. Il segretario della Cgil sa di certo che il consiglio di fabbrica dell'Italsider si spaccò sulla decisione di accompagnare Rossa che doveva testimoniare al processo contro il postino brigatista. Una parte dei delegati disse: «Chi vuole andare con Rossa, si metta in ferie e ci vada per conto suo».
Suggerisco a Epifani di rileggere l’articolo di Giorgio Amendola su Rinascita del novembre 1979.

Era una denuncia esplicita degli errori del sindacato e del Pci. E del rapporto diretto fra violenza in fabbrica e terrorismo, coperto dal silenzio della Cgil. Una rilettura utile per raccontarcela giusta, caro Guglielmo.

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