Quello che segue non è uno sfogo ma una testimonianza di «genere», di gender per dirlo alla moda, sulla difficoltà per il maschio di crescere i figli se non sei mantenuto, dipendente pubblico o residuato patriarcale.
Viviamo in una società femminilizzata (per eventuali critiche, non sparate sullo scrivente ma su Jean Baudrillard, la formula è sua) e consacrata al culto delle pari opportunità, e si parla tantissimo della cronica insoddisfazione della donna per la conciliazione casa-figli-lavoro. Ma del maschio-papà, a parte tronisti, metrosexual, übersexual, quarantenni single o mostri metropolitani, non parla nessuno, tantomeno di un personaggio socialmente diffuso ma colpevolmente rimosso dalle cronache: il padre di due o più figli, con lavoro creativo e moglie in carriera, che si convince di voler essere modernissimo e decide di essere presente nella vita della prole. Sceglie, cioè, l’impossibile conciliazione tra paternità, famiglia e carriera, sua e della sua agrodolce metà. È il padre postcontemporaneo.
Il padre postcontemporaneo è un animale gagliardo e razionale che lavorativamente si riproduce in più specie, per dire, l’avvocato, il giornalista, il pubblicitario, lo scrittore, l’imprenditore, cioè professioni che, quando nasce il pupo, non prevedono la possibilità di mettere il corpo in ferie e il cervello in sonno per qualche mese. C’è un libro, Fai la nanna, Nannina (Mondadori) di Gian Luca Belardi, la storiella di un autore televisivo che ha la grande chance di lavorare per una grande rete nazionale proprio quando nasce la figlia, e deve destreggiarsi tra l’ispirazione da trovare e il pannolino da cambiare. Ovviamente, la storiella politicamente corretta vuole che il fiasco televisivo che il nostro autore rimedia sia la vera svolta della sua vita, così potrà ingrassare in santa pace mentre fa il baby-sitter.
Per fortuna, il lieto fine non è sempre quello per cui il buon padre deve per forza essere uno sfigato sul lavoro. Personaggio vagamente wagneriano, guardato con commiserazione dai coetanei che hanno scelto la vita piaciona e brizzolata del single, il padre postcontemporaneo lotta quotidianamente per il trionfo della sua volontà. A volte vince, a volte soccombe: è esperienza di ognuno entrare in redazione, in tribunale, in ufficio, e trovare un paio di occhiaie penzolanti più di quelle di Pluto che implorano cinque minuti di sonno mentre sono costretti a scrivere pareri legali o montare servizi dopo aver montato castelli di Lego. A lui, a noi, non è concesso alcun congedo, non esistono i cinque mesi di licenza poppate: vuoi fare lo splendido e raccontare ai colleghi quanto ti occupi dei bimbi e quanto sei collaborativo, perché le pari opportunità si fanno anzitutto in casa?
Prima conseguenza: se non dormi non produci idee, se non produci idee non guadagni, e se non guadagni potrai al massimo raccontare com’è bello crescere i figli in povertà quando tua moglie, a cui non frega molto delle pari opportunità ma alla quale avevi promesso una vita agiata, è scappata col personal trainer. Scoprirai sulla tua pelle che la terribile differenza esistenzialista tra il padre di figlio-con-colichette e il padre di figlio-senza-colichette. Il primo, un fiore. Il secondo, un fiore appassito.
Seconda conseguenza: se cerchi la gloria, il giusto riconoscimento del tuo sforzo, perdi tempo. I rotocalchi ci raccontano del padre perfetto, dei vari Brad Pitt o David Beckham che cambiano i pannolini ai figli anche quando stanno a un continente di distanza. Ecco, i Beckham e i Pitt, o meglio la loro evidentemente falsa trasposizione hollywoodiana (ogni divo ha sempre cinque tate nascoste sotto il cuscino), sono la scusa perfetta che una donna ha per dire al suo uomo: lo vedi, non solo non sei l’unico che si sveglia due volte a notte per dargli il biberon o cambiarlo, ma non sei nemmeno il migliore. Anzi, sei sotto la media, «lo dice anche mia mamma», magari la stessa suocera che il marito, quando sono nati i figli, l’ha visto in cartolina fino a che i pargoli non sono andati all’università.
Terza conseguenza: anziché il sostegno, il padre postcontemporaneo attiva la competizione feroce dell’elemento femminile. Non succede mai, a dispetto del Sabelli Fioretti di Dimmi dammi fammi (Aliberti), che una donna si avvicini al suo uomo, stremato da cinque ore di ninnata notturna, e gli sussurri: «Ti voglio bene per come sei». Un quarantennio di femminismo e pari-opportunismo si sbriciolerebbe, trasformando la donna in un essere capace di oggettivazione. Impossibile. Tu, caro papà a corto di creatività e di sonno, sarai sempre quello assente che fa il minimo indispensabile. Corri al calcetto anche alle undici di sera pur di mettere il naso fuori di casa, fai pure un mestiere che, non prevedendo i bicipiti o il badge, è naturalmente agiato, comodo, senza orari, ti pagano per scribacchiare o chiacchierare, suvvia. E allora cosa rompi?
Quarta conseguenza: se cerchi comprensione nei figli, stai fresco: vista l’aria che tira, tireranno sempre sul prezzo del loro eventuale appoggio, almeno così raccontano i pionieri tra i padri postcontemporanei, quelli che hanno aperto le danze vent’anni fa. E ancora ballano.
Insomma, se vuoi fare il padre postcontemporaneo, un padre da manuale del papà perfetto che concilia tra paternità e lavoro creativo, professione&pannolini, preparati a essere un misconosciuto in casa e un incompreso in trasferta. Alla fine, chiedi lumi al Califfo, che è meglio.
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