Ma che vita da fogna fanno questi boss

«Siete stati bravi». È finita dopo due giorni la fuga di Giuseppe Setola, «’o cieco», il camorrista di 38 anni che nella notte tra domenica e lunedì era riuscito a sfuggire alla cattura attraverso la fognatura dal suo covo a Trentola Ducenta, nel Casertano. Un altro latitante, un altro boss arrestato in una casa diroccata. Perché non è sempre dorata la latitanza dei capi delle mafie nostrane. Anzi, quasi mai. Interpretano la «malavita», quasi in senso letterale: vita cattiva, naturalmente criminale, cioè brutta, infame, dura.
Uno che pensa di scappare dalle fogne, come un topo che nei liquami sguazza, e che a fianco di scoli di acque nere vive, è quasi obbligato, tra le poche cose di cui si circonda nel suo rifugio, a tenere una bottiglia di profumo, una «boccia grande di un profumo di marca Cartier», come hanno scrupolosamente annotato gli inquirenti nei verbali di perquisizione.
Il fetore va combattuto e il denaro per comprare lussuose fragranze non manca.
La vita grama immersi nella puzza è la costante di numerosi delinquenti. Altro che boss della mafia ricca e globalizzata, primule rosse svolazzanti dell’alta società, tra hotel a sette stelle, casinò, belle donne, fiumi di alcol e cocaina.
Il minuscolo covo dal quale Setola è riuscito a scappare era ingombro di rifiuti, compresi scarti di lavori edili. Alle pareti ammuffite, la carta da parati scrostata. I complementi d’arredo, un materasso azzurro su una rete con doghe di legno, la scatola di un gioiello, un crocefisso appeso alla parete, un comò che ha conosciuto tempi migliori con, sopra, la bottiglia di profumo e il libro «Alzatevi, andiamo» scritto da papa Wojtyla. Perché ci vuole fede per far fronte a quella vita da topi di fogna.
O da talpe. Come - in Calabria - Demetrio Vincenzo Santaiti, affiliato alla cosca Gioffrè di Seminara, preso in un covo, attrezzato anche con bagno e cucina, ricavato sottoterra in una zona di campagna nel territorio di Oppido Mamertina: due stanze in cui, oltre a due letti, c’era però di tutto: impianto di aria condizionata, gruppo elettrogeno, frigo stracolmo di vivande, due televisori, un computer ed una play-station. Una vita da talpe ma almeno comoda.
Niente a che vedere con quella di Giuseppe Pulvirenti detto «’u malpassotu», mafioso siciliano di Belpasso. Arrestato dopo 11 anni di latitanza nelle campagne a 40 chilometri da Catania. Viveva, con il suo guardaspalle, in un vano sotterraneo di sedici metri quadrati nascosto da una botola. Nel rifugio, due lettini, la pistola, una radio sintonizzata sulle frequenze delle forze dell’ordine e una manciata di denaro. In quel buco aveva trascorso l’ultima settimana. Eppure, quando venne arrestato nel 1993, era considerato il più pericoloso capomafia della Sicilia orientale. Vedendo, sotto il casolare semiabbandonato, quel tugurio privo di luce e di servizi igienici, il capitano Ermanno Fenoglietti, un carabiniere piemontese che comandava il nucleo operativo di Catania (poi morto tragicamente in Bosnia), non poté fare a meno di esclamare: «Ma che vita è questa?».
Sicuramente scomoda. Benedetto Santapaola detto Nitto, boss della mafia catanese, fu sorpreso insieme alla moglie in quella che venne chiamata un po’ pomposamente villetta all’interno di un’azienda vinicola. Camere spoglie ma per lo meno pulite. «Tutte le cose buone devono finire», disse dando l’addio alla sua decennale latitanza. Ma i tempi delle feste sfarzose e dei ricevimenti con il jet-set etneo erano già lontani e quasi dimenticati.
Pietro Aglieri, detto «’u signurino» per l’ostentata ricercatezza degli abiti che amava indossare, boss palermitano, venne ammanettato in camicia in un magazzino in disuso per la lavorazione degli agrumi, una sorta di catapecchia a Bagheria dove si nascondeva da mesi.
Il «papa» della mafia Michele Greco fu fermato in una fattoria delle campagne di Caccamo dove vivevano i pastori.
E anche i Brusca, padre e figlio, comandavano la cupola da diroccati casolari (Bernardo) o da appartamenti in costruzione inno all’abusivismo sulla costa agrigentina (Giovanni). E cosa aveva in tavola il più sanguinario dei boss, l’uomo che ha premuto il pulsante del telecomando a Capaci? Spolpava pollo arrosto e patate al forno insieme al fratello, le rispettive mogli e i loro tre figli. Niente caviale e champagne.
La «sofferenza dell’uomo d’onore» come religione. Meglio il potere degli agi. Benedetto Spera, braccio destro di Bernardo Provenzano, venne catturato nella mangiatoia di un casolare di Mezzojuso, nel Palermitano, dove si era nascosto. Da pecoraio a manager degli appalti pubblici, il consigliori più fidato di «Binu ’u tratturi», al vertice della cosca di Belmonte Mezzagno, per nascondersi era tornato alle origini.
E poi lui, il superlatitante per 43 anni: Provenzano.

Aveva fatto il suo covo in una cadente e isolata masseria nella sua terra di mafia, sacchi di plastica nera alla finestra, letto senza lenzuola, perenne odore di ricotta (fatta nella stanza accanto) nell’aria, afflitto dai guai alla prostata, refrattario ai medicinali, unico cibo cicoria e grissini senza sale. Eppure, è stato il grande «padrino» del Novecento. Perché «cumannari è megghio di futtiri». E poi, si dice, se hai potere fotti anche. Ma, con il «male» alla prostata, qualche problema c’è anche per quello.

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