Il cinema nudo e crudo che oggi rischierebbe la "Pelle"

"Skin" di Danny Wolf, su piattaforma dal 18 agosto, è un documentario sulle star (e le comparse) senza veli

Il cinema nudo e crudo che oggi rischierebbe la "Pelle"

Nuda e cruda. Di luna e d'ebano. Nera, bianca e umana. Comunque pelle. Desiderata, esposta ai quattro venti e ai mille set d'un cinema della nudità che adesso fa i conti con un evento speciale: la pandemia. E perciò si chiude al derma sventolato per cultura e per soldi ed evita i contatti intimi tra attori, grazie alla tecnologia CGI: senza veli, sì, ma da soli e davanti a un telone verde, in compagnia d'un plotone di ufficiali del Coronavirus, ingaggiati dalle produzioni quali medici di sorveglianza mentre si gira. Più importanti loro, al momento, di qualsiasi produttore aggiunto o star di fascia alta.

Eppure, fino a ieri tutti abbiamo visto le più iconiche scene di nudo, molte delle quali sono rimaste un culto segreto, da consumarsi online nell'epoca del politicamente corretto. Così arriva a proposito, come un'eco familiare da un altro pianeta Skin: A History of Nudity in the Movies (Pelle: storia del nudo al cinema), interessante film documentario americano di Danny Wolf, con varie «teste parlanti» - dall'attore Malcolm McDowell, protagonista di Arancia meccanica, a Traci Lords, indiscussa regina del porno anni Ottanta; dal regista Peter Bogdanovich, autore di Paper Moon, ma soprattutto del dirompente (per il 1971) The Last Picture Show, alla nipotina attrice di Ernest Hemingway, Mariel -, impegnate a raccontare come hanno vissuto lo spogliarsi davanti alla troupe e che cosa volesse dire, nei non dimenticabili tempi immuni dalla censura preventiva, recitare come mamma t'ha fatto.

Tale docufilm, disponibile dal 18 agosto sul canale YouTube e sulle piattaforme digitali on demand, distribuito da Quiver Distribution e prodotto da Paul Fisher e da Mister Skin, aka Jim McBride, sacerdote della pelle esposta, studia i cambiamenti della morale per il tramite dei nudi cinematografici. Dai tempi del muto, quando Hollywood cominciava a sembrare la Gomorra sul Pacifico, ai giorni nostri, flagellati dal virus che impone sui set i cosiddetti Intimacy Coordinators, i «coordinatori d'intimità» che stabiliscono chi può toccare chi. Passando in rassegna film celebri come Un uomo da marciapiede (1969) di John Schlesinger, con un simpatico e bravissimo John Voight, fiore nel fango di Manhattan, che faceva il texano prostituto di uomini e donne o come il più recente 50 sfumature di grigio, oggi impensabile.

Questa narrazione del nudo, incentrata sulle variazioni degli stili politici, sociali e artistici attraverso l'uso della pelle esibita, si focalizza anche sulla disuguaglianza di genere. Presentando molte scene che oggi andrebbero riscritte, quando non bocciate sul nascere. Che cosa sono le scene di nudo, infatti, nell'era del #MeToo, calcolando che a mettersi comode erano soprattutto le donne? Soltanto di recente, infatti, attraverso vari film sull'omosessualità maschile, gli uomini compaiono nature. «Quattro amici in cerca di sesso mi filmano nuda, a mia insaputa, e io, poi, me ne torno a casa senza che essi ne abbiano il minimo contraccolpo? Col #MeToo, sarebbero sorti problemi», dice nel documentario Shannon Elizabeth, sex-symbol di Scary Movie e di altri film sporcaccini per adolescenti, che incarnava Nadia, studentessa pronta a perdere la verginità in American Pie (1999). Ora l'attrice dal look esotico (papà siriano), ex-modella e tennista, s'interroga sugli standard in evoluzione, ma vent'anni fa il suo spogliarello la lanciò nell'impero dei sensi. Anche Mariel Hemingway, classe 1961, qui affronta la questione dei benefici apportati alla sua carriera dal nudo. Reginetta di Playboy, senza niente addosso in Star 80, la sorella minore di Margaux Hemingway ha interpretato la ragazza 17enne di Woody Allen in Manhattan, destando quindi scalpore nella serie tv USA Civil Wars, criticata anche dalla figlia Dree. «Mi dissero: Via i vestiti! e quelli della troupe videro la mia faccia diventare fucsia», narra Mariel, mentendo sul fatto che gli addetti al set la guardassero in faccia.

Ma non tutte sono state fortunate come lei e la Elizabeth. Pam Grier, pietra miliare del nudo nero nei Settanta della controcultura e archetipo femminile della blaxploitation, ovvero lo sfruttamento del corpo afroamericano, visto come selvaggio e appetibile, si lamenta d'aver fatto «lo zucchero di canna» in Foxy Brown's (1974) di Jack Hill. «Eravamo in piena liberazione sessuale e mi toccava la parte dell'icona del sesso nero», spiega Pam, idolo di Quentin Tarantino che nel 1997 le ha dedicato il film Jackie Brown e musa di Spike Lee. Soltanto la parola blaxploitation oggi è bandita dal movimento #BlackLivesMatter, che non tollera il cinema di genere. Siamo tornati al Codice Hays, citato da Skin e che, dal 1934 al 1968, censurava quanto risultasse licenzioso? Se c'è una stella che ha capovolto ogni schema, volgendolo in suo favore, è quella di Marilyn Monroe, nuda in piscina nel film incompiuto di George Cukor Something's Got to Give (1962). Fu l'ultima pellicola in cui recitò la diva biondo platino, licenziata per assenteismo e morta nello stesso anno, in circostanze oscure.

Che Marilyn fosse a suo agio senza abiti è palese: basta rivedere la nota foto di lei, con i fratelli Kennedy imbambolati e un abito in tulle e paillette, cucito addosso al suo corpo esibito senza filtri. Di sicuro, oggi lei non userebbe la mascherina, né accetterebbe la realtà virtuale degli amplessi, girati ognuno in separata sede.

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