Pain Hustlers - Il Business del dolore, il nuovo film Netflix Original disponibile da oggi sull’omonima piattaforma, è un titolo molto atteso, girato da David Yates (già regista di quattro “Harry Potter” e di “Animali fantastici”) e con un cast di star di primo livello.
Opera godibile ma tutto sommato didascalica, “Pain Hustlers” costituisce più un’indagine sugli effetti collaterali del denaro facile che una vera disamina delle conseguenze del capitalismo farmaceutico e colpisce più per la freschezza della narrazione che per il dramma etico su cui fa luce.
Liza Drake (Emily Blunt) conduce una vita dura; è la madre single di una figlia adolescente (Chloe Coleman), abita in uno squallido motel della Florida e sbarca il lunario in uno strip club di Miami. Un giorno però, nel locale, incontra Pete (Chris Evan), direttore delle vendite per una compagnia farmaceutica fondata dal dottor Jack Neel (Andy Garcia), il cui fiore all’occhiello è il Lonafen, un medicinale a base di fentanil, ad azione rapida, destinato ai malati di cancro. Pete prende Liza in simpatia e le offre un lavoro purché convinca un medico, qualsiasi medico, a prescrivere l’inalatore di oppioidi come terapia oncologica. Liza riesce nell’impresa: è intelligente, determinata e una gran lavoratrice; si trova in un lampo a passare dalle stalle alle stelle, motivata anche dal fatto che la figlia ha un disperato bisogno di cure mediche che l'assicurazione non copre. Grazie a lei l'azienda vola dalla quasi bancarotta alla vetta del mercato. La situazione però è compromessa dal punto di vista etico: i medici ricevono da Liza e Pete un compenso come relatori di convegni che in realtà è una tangente per incentivare le ricette. Quando si arriva ad esortare i camici bianchi a fornire il farmaco anche a pazienti non affetti da ciò per cui è stato sviluppato, ovvero il cancro, molte persone si trovano dipendenti dalla sostanza al punto da morirne.
“Pain Hustlers” esplora, in maniera romanzata, le vicende di un'azienda farmaceutica, la Insys Therapeutics, documentate in un articolo di Evan Hughes del New York Times del 2018.
Il regista mette in scena una parabola morale sul fascino del guadagno e del potere, che si apre su rappresentanti disperati che danno l’assalto a medici avidi, se li fanno amici e diventano guru del pragmatico “possiedi il medico, possiedi il territorio”; seguiamo da spettatori un’ascesa della protagonista che richiama ora “Pretty Woman” ora “The Wolf of Wall Street” e le sfumature del racconto sono cupamente comiche. Alla madre ribelle di Liza (Catherine O'Hara), una macchietta o poco più, viene a un certo punto affidato il ruolo di deus ex machina, quando però “Pain Hustlers” è già diventato più serio e concentrato sulla questione morale derivata dalla commercializzazione illegale (perché off- label, cioè fuori dalla posologia) del Lonafen.
La protagonista del film, per quanto riguarda il rapporto coi medici, passa dall'adulazione alla corruzione, mentre, sul versante privato, il suo approccio esistenziale vede l'originario tentativo di sopravvivere cedere il passo all’approvvigionamento compulsivo di status symbol. Se da un lato constata che “non c’è niente di più stimolante della disperazione assoluta”, poi è costretta anche ad ammettere: “Volevo i soldi e il rispetto così tanto che non mi importava come ottenerli”.
Sentirsi qualcuno che ce l’ha fatta, in questo caso, è costato vite; la presa di consapevolezza tardiva, la vergogna e i sensi di colpa sono mostrati dopo che, per troppo tempo, lo spettatore è stato chiamato a essere complice delle gozzoviglie dei personaggi principali, difficile quindi simpatizzare da un momento all'altro per il pentimento.
In definitiva “Pain
Hustlers” si vede volentieri ma è un film denuncia che non aggiunge granché a quanto già rappresentato, in maniera più veritiera e coinvolgente, in altri film su condotte disoneste nel settore sanitario.
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