La non puntualità sul posto di lavoro viene considerata un illecito disciplinare che viola il dovere di diligenza del dipendente, e come tale può comportare il rischio di incorrere in sanzioni fino ad arrivare, nei casi più gravi, al licenziamento.
In genere gli orari di ingresso e uscita, fissati nel contratto di assunzione o nel regolamento aziendale, vengono decisi dal datore di lavoro, il quale effettua la sua scelta sulla base delle esigenze dell'attività produttiva: talvolta un lieve ritardo non provoca particolari ripercussioni, ma in altri casi, come ad esempio accade nelle catene di montaggio, condiziona l'intera filiera.
In ogni caso non essere puntuali è certo un esempio di inadempimento contrattuale, per quanto sia comunque sempre bene distinguere violazioni più o meno gravi, a seconda dell'entità del ritardo e della frequenza con cui si verificano episodi del genere. Solitamente, anche sulla base dei contratti collettivi applicati o di norme interne all'azienda, il datore di lavoro tende a tollerare dei piccoli sporadici ritardi, specie quando risultano "involontari", ovvero non derivanti dalla volontà del dipendente. Si fa riferimento, con questo termine, a quelle situazioni in cui l'inadempimento sia dovuto a cause di forza maggiore, quali scioperi o ritardi dei mezzi pubblici o incidenti stradali, o a situazioni non preventivabili, come un malore al risveglio.
Qualunque sia la motivazione, anche se non dipendente dalla volontà del lavoratore, quest'ultimo ha il dovere di avvisare tempestivamente il proprio titolare o il superiore, spiegando le ragioni del ritardo. Si tratta di una forma di correttezza e di rispetto nei confronti dell'azienda e del datore di lavoro il quale, consapevole dell'imprevisto, potrà organizzare l'attività produttiva senza correre il rischio di dover fermare tutto. Qualora i ritardi siano sporadici, giustificati e segnalati correttamente, il lavoratore non rischia di incorrere in sanzioni disciplinari.
Diverso il discorso in cui il ritardo non è giustificato, oppure quando è prolungato in modo eccessivo o ciò non avviene in modo occasionale: in questi casi anche la giustificazione potrebbe non essere sufficiente a evitare le sanzioni, dato che si parla di inadempimento degli obblighi contrattuali.
In situazioni del genere il datore di lavoro può accontentarsi di contestare il ritardo in modo non formale, come accade per esempio quando viene richiesto al dipendente di trattenersi oltre l'orario di uscita per recuperare il tempo perduto, ma non è sempre così. Come detto, infatti, ci sono casi più gravi ed episodi reiterati, per porre rimedio ai quali il titolare può scegliere invece di avviare una procedura disciplinare.
Stante quanto determinato dall'art.7 dello Statuto dei lavoratori, quest'ultimo deve contestare formalmente la contestazione, che andrà consegnata a mano al dipendente in forma scritta oppure inviata tramite raccomandata.
A questo punto il lavoratore ha 5 giorni dal momento della ricezione per difendersi e spiegare le proprie ragioni. Lette le motivazioni, il titolare potrà decidere se soprassedere o andare fino in fondo.Quali sono le sanzioni previste in questi casi? Esistono 6 gradi a seconda della gravità della violazione:
- rimprovero verbale: è la sanzione più lieve e consiste in un richiamo;
- ammonizione scritta: simile alla precedente, ma rimane nel fascicolo personale del dipendente;
- multa: sanzione pecuniaria che causa la decurtazione della retribuzione fino a un tetto di 4 ore;
- sospensione dal lavoro: sanzione che in genere non può superare i 10 giorni lavorativi;
- trasferimento: si attua col cambiamento di sede/reparto del dipendente, ma non deve esserci alcuna riduzione della qualifica o della retribuzione;
- licenziamento: è la punizione più pesante, applicabile esclusivamente nei casi di ritardi pesanti e reiterati in grado di compromettere l'attività dell'azienda.
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