Ma in una gara della canzone italiana il dialetto stona

Ma in una gara della canzone italiana il dialetto stona
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Che senso ha chiamarlo Festival della canzone italiana quando su 375 parole di un testo in gara 365 (le abbiamo contate) sono in napoletano? Per carità, quella di Geolier non viola le regole sanremesi e nessuno mette in discussione il successo del brano I p' me, tu p' te né il seguito di chi l'ha portata sul palco dell'Ariston, ma la domanda non perde di efficacia: perché? Chi scrive è un meridionale che non può essere tacciato di razzismo e che confessa di aver trascorso alcuni anni della propria adolescenza ad ascoltare canzoni neomelodiche di artisti come Gianni Celeste, Mario Merola, Tony Colombo. Ma qui si invita solamente a riflettere sull'opportunità di far gareggiare una canzone non italiana in un contesto da sempre definito per eccellenza «Festival della Canzone Italiana». Ai telespettatori non è stato concesso nemmeno l'ausilio dei sottotitoli, che magari avrebbero concesso loro la possibilità di dedicarsi quanto meno a un'esegesi del testo. Invece no, anzi, complice la velocità del rap, l'incomprensione ha regnato sovrana, escludendo di fatto una larga fetta di potenziali votanti. Lo stesso discorso può essere tranquillamente traslato al caso del cantante brianzolo Davide Van De Sfroos che nel 2011 portò a Sanremo una canzone interamente scritta in dialetto comasco.

Non è una questione di Nord o Sud, ma di uniformità linguistica e di giudizio. Nulla esclude che ci possa essere un Festival dei dialetti regionali, anzi sarebbe sicuramente opera meritoria. Ma Geolier e Van De Sfroos sono bellissime note in un contesto stonato.

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