Roma - Sotto lo stile british c’è un certo attivismo italiano, ambizioni che il Professore (sorta di nuovo Prodi) coltiva con discrezione e costanza. A Roma si è dato parecchio da fare negli ultimi tempi, Mario Monti. Una presidenza del Consiglio sarebbe il coronamento meritato per una carriera eccezionale, tra accademia (è presidente della Bocconi) e istituzioni (la Ue, di cui è stato non dimenticato commissario). L’economista gode di sponsor pesanti. A cominciare dal capo dello Stato, che ha già espresso il suo gradimento circa l’ipotesi di un governo di transizione sotto la guida di Monti. Questo basterebbe già a farne il candidato per eccellenza di un post governo Berlusconi. Ma la sfera d’influenza del bocconiano va oltre, arriva in altre stanze dei bottoni, quelle dei grandi banchieri e imprenditori (alcuni dei quali anche editori, cosa che non guasta in vista dell’operazione). Gli stessi che ha ritrovato in prima fila l’altro giorno a Milano (lo nota La Stampa) ad ascoltare l’ex premier Prodi. Cioè Giovanni Bazoli, presidente di Intesa San Paolo (grande azionista di Rcs-Corriere della sera, di cui Monti è editorialista), Corrado Passera, ad di Intesa, Angelo Caloia, banchiere cattolico, ex Ior, e poi Carlo De Benedetti, capo della Cir e gran promotore - tramite Repubblica, spesso con esiti nefasti - di candidati leader del centrosinistra.
Il Corriere è la vetrina di Monti, Paolo Mieli un suo autorevole sponsor, ma anche Repubblica sembra aver messo gli occhi sul professore, specie da quando Scalfari e De Benedetti hanno messo una lapide (lunga quanto le articolesse del fondatore) sulla carta Tremonti, come asso per far fuori Berlusconi. Da tre a un solo Monti, uno che - per usare le parole dell’ingegnere in una recente intervista a Die Zeit - «potrebbe guidare l’opposizione con successo, tutto il centrosinistra vuole Monti. Gode di prestigio a livello mondiale, potrebbe ridare all’Italia il rispetto che merita». «Meglio un Monti di Tre-monti» ha detto la Bindi, lasciando al Colle «la decisione» su quel nome «autorevolissimo».
Una concentrazione di poteri, politici e finanziari, ha individuato chiaramente in Monti l’uomo da portare a Palazzo Chigi. Con la partenza di Mario Draghi per la Bce, siamo quasi al candidato unico. L’economista attende una «chiamata», ma nel frattempo si muove. Va ospite della Annunziata su Raitre. Incontra Casini ed Enrico Letta, altro colonnello del Pd che insieme a D’Alema e Veltroni si augura un governo Monti, con due priorità: legge elettorale e manovrona fiscale. Ma si vocifera di un’altra sponda, meno scontata. La Lega, in particolare Maroni, avrebbe espresso il suo assenso a Monti premier, in un incontro di un mesetto fa, come nome gradito al Colle, quindi sempre nell’ottica leghista di assecondare le preferenze di Napolitano. Una soluzione diametralmente opposta alle tesi ufficiali del Carroccio, che esclude sempre «pasticci da prima Repubblica», perché l’unico governo valido è quello «votato dalla gente». Su questo però non mancano le uscite sibilline, come quando Bossi disse che se «l’opposizione vuole il governo tecnico ne deve parlare con me», una specie di disponibilità, almeno così si può interpretare. Possibile sia un altro dei tavoli aperti dalla diplomazia leghista, con Bobo nelle vesti di ambasciatore (specie col Pd), quando non in quelle di candidato premier.
Ma un governo Monti avrebbe più simpatie in quegli ambienti finanziari internazionali che già hanno accolto il professore nel loro gotha. Di Goldman Sachs Monti è stato advisor (e prima di lui Prodi, che ora lo acclama: «Se le cose volgono al peggio per te sarà difficile tirarti indietro»), mentre è chairman europeo della crème dei cosiddetti poteri forti internazionali, la Trilateral Commission, una sorta di sinedrio finanziario globale, fondato anni addietro da Rockfeller.
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