Un comunista «clerical» per rompere col passato

RomaChe parli una lingua diversa da quella degli altri politici del Pd, non c’è dubbio. Ieri, seduto sulla poltrona rovente di Annozero, domandava senza troppe perifrasi: «Oòòòh! Non è che mi avete fatto il trappolone!?». Durante le pause degli spot non si consultava con i fedelissimi, ma correva col cellulare su Facebook, a vedere i commenti dei simpatizzanti «in diretta». Il suo primo libro aveva un titolo che era già una dissacrazione: Aldo Moro fu ucciso delle Giubbe rosse. L’aveva pubblicato con Lapo Pistelli, ma quest’anno, ritrovandoselo come avversario ricordava impietoso: «Scritto a quattro mani, nel senso che io l’ho scritto e lui l’ha firmato». Il secondo - licenziato nel 2006 da presidente della provincia - era choccante, per qualsiasi diessino: Da De Gasperi agli U2. Filosofia riassumibile in queste due folgoranti immagini: «La bandiera rossa per la mia generazione non è un simbolo politico ma il colore della Ferrari». E poi: «L’Internazionale non evoca un futuro socialista e rivoluzionario, ma il neroazzurro del calcio». Perfetto, per uno che deve farsi eleggere in una delle due città più «comuniste» d’Italia.
Matteo Renzi, classe 1975, in mezzo alle vecchie cariatidi e ai professionisti della politica si muove da marziano. Gli ripetono che è «un ciellino», un «mezzo prete», «un clerical», e lui incassa tutto senza batter ciglio, nemmeno fosse il Mickey Rourke di The Wrestler. In collegamento da una casa del popolo un militante lo critica, e lui subito prende le misure: «Ohè, Taccioni, ti conosco! Ho capito i tuoi dubbi, ti vengo a trovare lunedì sera...». Il New York Times lo definisce un possibile «Obama italiano» e lui, in piena trasmissione sussurra oxfordianamente «Beh mi tocco...»: sa bene che non c’è nulla di peggio per un politico che dover rispondere ad una aspettativa superiore alle proprie possibilità. Gli chiedono un giudizio sul libro di Veltroni, Senza Patricio? Si fa impietoso: «Glielo ho detto anche a lui, è copiato da Terra degli uomini di De Saint Exupery».
Renzi è uno nato nel 1975, cresciuti con i cartoni animati della seconda generazione «Più Holly & Benji che Goldrake», come precisa, con divertito scrupolo filologico. Uno che ha passato tempo sulle tavole del Subbuteo, uno che fa venire i capelli bianchi agli iscritti dei partiti della sinistra parafrasando in modo irriverente gli articoli della Costituzione. In una intervista a Vittorio Zincone di Magazine che ha Firenze fatto scandalo, si è esercitato così: «L’Italia è una repubblica affondata sul lavoro». Apriti cielo: «Il Renzi l’è di destra...», gli dicono. Oppure, come ha ripetuto un giovane dei centri sociali da Santoro: «Tu sei oggettivamente berlusconiano». Ma lui è uno di quelli a chi la battaglia fa bene.
Sta di fatto che ora, la difficoltà politica dell’attuale campagna elettorale del giovane candidato si gioca su questo curioso paradosso: Renzi deve il suo successo nelle primarie alla propria capacità di rompere di un codice di appartenenza, una lingua codificata; alla rappresentazione di una anomalia, alla sua alterità rispetto alla storia postcomunista che con diverse incarnazioni, da mezzo secolo governa Firenze. Ma allo stesso tempo, per vincere, ora Renzi ha bisogno esattamente dei voti dei partiti che ha archiviato con feroce abilità. Adesso l’eversore deve farsi conservatore, raccogliere i voti dei capelli bianchi, recuperare i veltroniani che ha seppellito, quelli raccolti intorno a Lapo Pistelli - per esempio - che si erano scelti l’indimenticabile slogan Punto e lapo (e si sono pure stupiti di avere perso). E deve andare ad accattivarsi i dalemiani che alle primarie avevano scelto Ventura, portandolo eroicamente all’ultimo posto. Ovvio che sia difficile, e forse persino sbagliato, perché la politica non sempre obbedisce al buonsenso: dissero ad Obama che avrebbe dovuto sfumare i suoi toni, sia nel duello contro Hillary che nella sfida contro McCain: lui ha fatto esattamente il contrario, ed è diventato l’uomo più potente del mondo. Da quando è stato investito dalla grazia di una vittoria sorprendente, Renzi pare combattuto fra questo dilemma, ancora indeciso sulla direzione da prendere. Subito dopo il voto, ad Omnibus, sfoderò prudenza democristiana. In studio Giovanna Melandri che cercava di mettere il cappello sul suo risultato, lui glielo consentì. Poi, dopo l’addio di Veltroni, quell’affondo micidiale alla stampa: «Con Franceschini abbiamo eletto il vice-disatro». Quindi a Magazine rivelazione sapida: «Dario mi ha mandato questo sms: il vicedisastro ti vuole parlare». Ad Annozero Santoro lo ha pizzicato sornione: «È il momento di estrarre dal fodero gli attributi...».

Ma lui, malgrado qualche staffilata, non ha duellato con Bassolino. Mentre lo guardi pensi che vincerà solo se continua a mitragliare con le sue battutaccie toscane. Ma anche che se lo fa potrebbe perdere: e rivelarsi l’uomo giusto nel posto sbagliato.

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