Stavolta l'orchestrina non suona. Nel Titanic dell'isola del Giglio è il panico a far da metronomo ai tuffi al buio, nel mare nero e ghiacciato. Con la nave inclinata più che nel film con Di Caprio il fracasso di uno scoglio strappato nella secca delle Scole e trascinato fin sui fondali di Punta Gabbianara è poca cosa rispetto all'apocalittico silenzio del black out successivo all'impatto. Musica da thriller, niente kolossal per famiglie: piatti, bottiglie, lampadari in frantumi. Ululati di sirene, fischietti e pianti, le raccomandazioni del comandante senza un cristo ad ascoltarlo. Sangue. Spintoni. Preghiere. Eppoi il rumore di chi corre anche contromano a intasare scale, corridoi, uscite di sicurezza, ascensori.
A fine cena, col dessert appena servito, in quattromila deambulano come fantasmi sulla Costa Concordia salpata alle 19 col gran pavese, da Civitavecchia, per il periplo del Mediterraneo. Due ore dopo la vita scorre davvero di traverso, obliqua alla morte di 30/40 gradi. Per molti si fa sghemba anche la speranza di ritrovare i compagni di viaggio rintanati chissà dove in questo invincibile bastimento extralusso afflosciato come un gommone bucato. La luce va e viene, come la speranza. Prima di incagliarsi la nave intruppa di nuovo, cambia direzione, si trascina stanca, infiacchita, gonfia d'acqua. E si adagia lentamente di fianco a 800 metri dal porto dove conclude la traversata. Mentre tutto questo inesorabilmente accade, per stanare la persona cara la caccia è alla cieca, ovunque. Nei ristoranti, sui ponti, al bar, nelle palestre, dentro la discoteca sotto il casinò, nelle rispettive cabine. La clientela vestita elegante scappa, si calpesta anche a teatro. C'è da correre la gara della vita: quella ad accaparrarsi un giubbotto di salvataggio, a rubarlo a chi non riesce a indossarlo, a superare la fila per un posto in scialuppa. Insomma, è la corsa a fregare il prossimo prima che sia lui a fregare te.
Disperato, sacrosanto egoismo. Almeno all'inizio ognuno pensa per sé, ma chi per mestiere deve pensare agli altri si mostra presto impreparato, nervoso, lui stesso impaurito dai passeggeri privi di sensi nei corridoi e di chi sceglie di ripercorrere la strada degli angeli senza ali delle Twin Towers. Il volo salvifico nel nulla. Pluff. Mormorio sgraziato inseguito da gridi strozzato dalle onde. «Aiutatemi, vi prego aiutatemi...». Mancano coperte, bevande calde, teste pensanti. Le lance calano lente, s'incastrano nei verricelli elettrici, precipitano rovinosamente addosso ai poveretti in attesa, ai piani sottostanti. Il nervosismo via radio alimenta il timore (infondato) che non ci sia posto per tutti. Tremano, per il freddo e per la deficienza motoria che rischia di seppellirli negli abissi, due disabili, una mamma con neonato in braccio e un'altra di nuovo incinta. L'ipotermia e l'acqua gelida, intanto, ammazzano uno, due, forse più vacanzieri. La conta, sul ponte di comando, si fa confusa perché più di qualcuno rischia tornando in cabina a salvare il salvabile prima di regalare il bagaglio ai pesci. L'sos rimbalza con coordinate precise in Continente ma a bordo la bussola è persa. Un soccorritore incassa giustamente un cazzotto per aver invitato un passeggero e consorte ad aspettare in cabina. Un altro è spalle al muro per lo sbraitare in giapponese di un turista del Sol Levante incapace di farsi capire.
Eppoi i presenti, gli assenti. Oddio. I numeri sono sballati, non tornano. Quanti sono i parrucchieri del reality? E gli americani? I cinquecento tedeschi ci sono tutti? Il gruppo di Avellino? Quelli di Latina? Di mano in mano scorrono gli elenchi, si smarcano gli identificativi certi dagli incerti. Strilla l'ufficiale di coperta: «Giù non riescono a muoversi circa settanta di persone, avvertite i soccorsi a terra, da qua non possiamo farci niente». Localizzate a memoria nella parte poppiera della nave inaccessibile per lo squarcio di 80 metri sulla carena che imbarca vagonate di mare al secondo, e che già nel 2008 si aprì nello scontro con la banchina del porto di Palermo. La maledizione del Concordia è roba da cabala, coincidenze e scongiuri: la nave s'incaglierà di venerdì 13, colerà a picco alle 13 del giorno dopo, dando così corpo ai nefasti presagi di quel varo maledetto del 2005 quando la bottiglia di champagne non si disintegrerà nel lancio benaugurale al battesimo del mare.
Con la linea di galleggiamento ormai a vista la spola dei disperati con la terraferma si fa incessante. Alla fine saranno novantadue a cadere in acqua o a buttarsi giù, a nuotare più veloci del freddo. Il pianista se ne frega della leggenda, smette di suonare e anche lui preferisce ritrovarsi nel Tirreno. Il tempo incalza, le scialuppe scarseggiano. Volteggiano elicotteri, piombano in massa imbarcazioni della Guardia Costiera e dei carabinieri. I sub dei vigili del fuoco s'immergono dove qualche ora prima si faceva la fila per il guardaroba, la sala giochi, il bar, la scalinata sfarzosa che congiunge i piani nobili della regina dei mari. Qualcuno è laggiù. In terraferma sono ormai centinaia i naufraghi infreddoliti accolti dai gigliesi con vestiti, letti, plaid, telefonini, the caldo. Il ristoro prima del rientro a casa, coi traghetti salpati da ogni dove. Il parroco di San Lorenzo e Mamiano spalanca le porte della chiesa e accoglie anche quanti scomodano santi e madonne alla vulgata confermata dal sindaco che dietro al naufragio possa celarsi un improvvido scambio ravvicinato di saluti tra il comandante e gli isolani. Al di là dei si dice, l'evidenza è sotto gli occhi di chiunque va per mare. Inquieta i paesani, disarma i pescatori. Allarma soprattutto i pm di Grosseto perché anziché navigare a cinque miglia dal faro, la Concordia bordeggiava l'isola circondata di scogli e di secche nemmeno fosse un fuoribordo, a dispetto dei bip degli ecoscandagli e delle sacre scritture marinare dei Portolani. Avventurarsi così a ridosso della costa non ha spiegazione logica, se non in un'avaria tecnica o, appunto, in un errore umano.
Che avrebbe potuto riservare due cadaveri in più se i finanzieri della Guardiacoste G104 Abruzzi non avessero indirizzato il faro delle torce a un oblò con due poveri vecchi appiccicati al vetro, paralizzati in un incubo, imprigionati nella cabina ostaggio del mare padrone della nave. A calci e colpi d'ascia l'oblò s'è disintegrato a fatica e la coppia è stata issata di peso da tre giovani eroi non per caso. Appena in tempo. Venti minuti di ritardo e la coppia non l'avrebbe raccontata ai nipotini.
L'alba arriva in punta di piedi e regala ai nottambuli sbarcati l'immagine di quel gigante stanco, moribondo, accasciato con la chiglia squarciata e lo scoglio appiccicato sopra. Un'istantanea che non fotografa l'altro squarcio, nella parte ancora sommersa, che riporta i residenti più anziani alle undici ore di un'altra agonia nautica, quella di mezzo secolo fa nell'Atlantico, 300 miglia da New York. Il più vecchio della comitiva ha le sembianze e la flemma di un oracolo greco. «Il viaggio inaugurale dell'Andrea Doria venne fatto proprio oggi, il 14 gennaio del 1956. Una coincidenza? Sarà. Il mare è così, se non lo rispetti, non perdona...». Che riposino in pace le tre vittime fin qui accertate, due francesi e un marinaio pakistano. Sul tavolo dell'obitorio di Orbetello il cartellino parla di decesso per annegamento. Rispetto alle terrificanti cifre iniziali i dispersi sarebbero comunque tanti, una quarantina (quattro americani si sono fatti vivi nel pomeriggio) sui 4.234 registrati a bordo. I feriti salgono a quaranta, otto gravi.
Il mare che non perdona a tarda sera riconsegna solo ciambelle, vestiari, suppellettili. Nessun cadavere.
Un segnale da cogliere che non spegne il batticuore per quel che la Concordia potrebbe ancora custodire nella sua parte più inaccessibile, parzialmente inabissata e destinata a trascinare a fondo il resto dello scafo. Chi non risponde al censimento della autorità potrebbe essere lì, boccheggiante in un filo d'aria, incastrato, disperato, spacciato. Come col Titanic, stessa musica.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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