Conto alla rovescia

Secondo molti non è finito un conto alla rovescia, ma è invece cominciato un conteggio nuovo, da zero a chissà quando e chissà dove. Il comportamento dell’Iran, e in particolare del suo presidente Ahmadinejad, indica che costoro hanno probabilmente vista lunga. Perché la crisi che va sotto il nome di nucleare e sembra ai più una cosa di mesi se non di giorni in realtà è vecchia di almeno quattro anni ed è tutt’altro che limitata alle ambizioni atomiche degli ayatollah di Teheran. Semmai alle loro ambizioni globali, ed è questo che dovrebbe indurci a riflettere invece di rifugiarci, con pari pigrizia mentale, o nella tentazione fatalistica della resa o in una reazione violenta, viscerale e marziale, sempre nell’immediato. Il gioco è invece più complesso e contiene un numero di incognite insolitamente largo. Alcune sono in superficie, altre meno. Ahmadinejad parla tanto, tempesta tanto ed è tanto colorito da indurre qualcuno a pensare che le ambizioni del suo Paese e la conseguente crisi siano farina del suo sacco, prodotto di una immaginazione fanatica e allucinata. Che non manca ma che non è la sola componente della sua personalità, così come la sua personalità non è la sola componente della volontà di potenza di Teheran.
I progetti nucleari risalgono a quattro anni fa, quando Ahmadinejad era uno sconosciuto nel mondo e un semplice militante in patria e l’Iran era retto, sempre al di sotto della teocrazia istituzionalizzata, da Mohammad Khatami, considerato, non soltanto oggi che è in pensione ma anche quando era presidente, il riformista, il moderato, l’uomo con cui si può discutere. E a discutere si continua: Khatami arriva in America fra poche ore e ad accoglierlo ci sarà Jimmy Carter, l’uomo che era alla Casa Bianca nei giorni della «rivoluzione» iraniana, fu oggetto dei peggiori insulti, fu sconfitto in una guerra psicologica e ci rimise il posto. Il presidente iraniano attuale, intanto, ha sfidato Bush a un dibattito televisivo «senza censura». L’incontro non si farà, ma la sola idea aggiunge un interrogativo sulle strategie di Teheran. Che sono complesse e non dovrebbero essere considerate un pezzo per volta. Il riarmo nucleare, l’impegno militare e finanziario nel Libano, i rapporti commerciali intensificati con Russia e Cina, il bombardamento propagandistico contro Israele su toni che nessun governante arabo sogna oggi di usare. Se mettiamo tutto assieme, e detraiamo le apparenti bizzarrie di Ahmadinejad, un filo rosso appare che tiene insieme molti gesti e li spiega: l’Iran cerca di sfruttare quello che vede come il «suo momento». Si sente forte come non mai e probabilmente lo è. È il più solido fra i regimi islamici, governato da un intrico fra teologi e scienziati nucleari (potremmo chiamarlo «complesso militare religioso»), non è legato alla persona di un dittatore, non ha eliminato l’opposizione ma la tiene al guinzaglio e, quando occorre, al bavaglio.
È un Paese di 70 milioni di abitanti, massiccio produttore di petrolio in un momento in cui i prezzi delle materie prime energetiche sono ad altezza record, dunque ha i forzieri pieni. Questo convince i suoi dirigenti che non solo delle sanzioni economiche come quelle che il Consiglio di sicurezza dell’Onu potrebbe decidere fra pochi giorni o ore non lo scalfiranno neppure ma anche che al contrario potrebbe essere Teheran a mettere in ginocchio l’Occidente bloccando le forniture di greggio. A questo «momento magico» si aggiunge (parliamo sempre dal punto di vista iraniano) una congiuntura politica momentaneamente «di sogno». I concorrenti dell’Iran nel mondo islamico, soprattutto i Paesi arabi, sono o sulla difensiva o a pezzi. I rivali sunniti hanno perso nell’Irak di Saddam Hussein il loro pilastro strategico (quello che anche l’America riconobbe come tale nella guerra degli anni Ottanta fra Teheran e Bagdad) e hanno prodotto soltanto un mito del terrore, Osama Bin Laden. Gli sciiti sono in ascesa ovunque, nel Libano con gli hezbollah e in Irak con i pur fragili governi usciti dalle elezioni volute da Bush. Perfino la Siria, un’altra dittatura «laica» che fino a ieri controllava il Libano e che quindici anni fa poté perfino permettersi un’alleanza militare con l’America contro Bagdad, comincia a sentire il potere degli integralismi. Non sono solo idee e prediche degli imam ma anche le armi iraniane anche se i due Paesi non sono confinanti. I missili per gli hezbollah attraversano tranquillamente l’Irak, quello che doveva essere l’ancora della «offensiva» americana per allargare l’area della democrazia nel Medio Oriente. Un ultimo paragone si impone infine fra Saddam Hussein e Ahmadinejad.

Ben prima di essere fisicamente in gabbia, il dittatore iracheno era un brutto pregiudicato accusato una volta tanto di un delitto non commesso (la fabbricazione di armi di distruzione di massa) e con pessimi avvocati. L’iraniano è reo confesso, ma a piede libero e con un collegio di difesa con pochi precedenti nella storia.

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