Il coraggio di dire che l’antisionismo è antisemitismo

Il nuovo saggio di Pierluigi Battista affronta di petto tutti i pregiudizi contro il popolo e lo Stato ebraico. Chi "spara" su Tel Aviv poi non dice nulla per ciò che accade in Cina e nel Darfur

Il coraggio di dire che l’antisionismo è antisemitismo

È un evento straordinario il nuovo libro di Pierluigi Battista Lettera a un amico antisionista (Rizzoli, pagg. 120, euro 17,50). Le élite europee e americane si sono contagiate le une con le altre in un demente biasimo per Israele, in cui non esiste né logica né storia, ma da cui, paludata di studi, numeri, belle parole e mezze parole, esce l’idea che Israele sia un Paese che sarebbe meglio non esistesse. Anzi, che forse domani non esisterà. Anzi, che verrà distrutto. Battista distrugge invece la perversione intellettual-politica di massa dell’odio antisionista in cinque brucianti capitoli e la rivela per quello che è: antisemitismo.

Ed ecco l’eccezionalità del lavoro di Battista: si contano sulle dita di una mano gli intellettuali non ebrei che abbiano sistematizzato lo scandalo dell’odio per Israele che appesta il mondo, l’Onu, l’Unione europea, e li riduce a un circo di bugie; che salvaguarda i violatori dei diritti umani; che non si occupa del colpo alla nuca in Cina o dello sterminio in Sudan, e condanna, chiamandoli con compiaciuta pornografia «nazisti», i check point israeliani che evitano gli attacchi terroristici. Al di là del gruppo dei cristiani per Israele, possiamo citare solo bravi intellettuali come l’inglese Robin Shepherd con A state beyond the pale, Bruce Bawer che affronta il tema nelle more del suo While Europe slept, Neill Lochery con Why blame Israel?, e fra gli italiani Angelo Pezzana e Magdi Allam. Poi ci sono grandi nomi di politici e giornalisti come, per primi, Josè Maria Aznar e Giuliano Ferrara.

Ultimamente una grande manifestazione a Roma con cui io stessa ho tentato di muovere le acque «Per la verità, per Israele» e a cui hanno partecipato molti intellettuali e politici di prima linea, ha dimostrato che qualcosa sta cambiando. C’è chi non vuole più sottostare alla più pericolosa perversione della mente europea. Ma pochi sono i membri dell’élite che hanno intrapreso un lavoro come quello di Battista. In genere gli opinion maker che parlano dai giornali, dai libri, dalla tv, dalle cattedre universitarie, dal mondo del cinema e dello spettacolo, hanno invece costruito un’opinione pubblica ignorante basata su una tacita intesa: quella che delegittimare l’esistenza d’Israele, immaginarlo come uno stato di apartheid o un perenne colpevole di crimini di guerra, definirlo una «shitty little country» destinato a morire come fece l’ambasciatore francese a Londra, usare un doppio standard che assolve i peggiori dittatori e negare perfino il suo diritto alla nascita, sia puro senso comune. E tale è diventato.

Battista combatte su due strade: quella dell’identificazione dell’antisemitismo con l’antisionismo e quella della «ossessione maniacale», l’esagerazione, la febbre che Robert Wistrich nella sua opera sull’antisemitismo chiama «lethal obsession». È evidente che l’ossessione deriva dalla pulsione antisemita, e Battista la smaschera. Ma non è solo questo: Israele viene giudicata, spiega Battista, in base a un sistema ideologico nato dalla Guerra fredda, in cui i popoli poveri sono buoni e quelli occidentali cattivi e imperialisti. Fra questi Israele. Ma il sistema di giudizio ha una falla logica centrale: il doppio standard, che Battista prende per le corna: «... niente Somalia, niente Eritrea, niente Sri Lanka, niente Kashmir, niente Ossezia del Sud ... il tuo spaventoso doppio standard (che) ti fa tacere sui milioni di displaced persons di cui il mondo è pieno ma di cui Israele non è colpevole... Forse scendete in piazza per gli uiguri? ...Vi incatenate per il Darfur, fate marce per la liberazione del Tibet e del Kirghizistan?».

E sul tema dei diritti umani: «Tutto ciò che attiene alla libertà e alla democrazia a voi non interessa, è come se non esistesse. Se accoppano un collaborazionista palestinese... se Hamas opprime le donne... se gli omosessuali palestinesi fuggono dalle terre dove sono condannati a morte per rifugiarsi in Israele... accettate senza un soprassalto di dignità, accecati come siete, che a Madrid (si boicotti) la presenza degli omosessuali israeliani... La forca non è più una forca, la tortura non è più tortura: è appannaggio di un mondo debole che se è debole lo è per colpa dell’Occidente ricco e colonialista di cui Israele è il cuneo, l’avamposto, la trincea avanzata del Medio Oriente». Questa forma di corruzione, che è la regola dell’Onu, mina la mente occidentale. Noi siamo la parte offesa insieme a Israele.

Battista lo denuncia dibattendo con figure classiche del nostro dibattito, Sergio Romano, Barbara Spinelli, e dietro di loro Tom Segev, o Edward Said, pilastri dell’élite di cui si è nutrita l’opinione pubblica occidentale. Sono loro le fonti dell’antisemitismo travestito, gli alfieri del diritto a «criticare Israele» che nessun liberale può negare. Ma Battista lo spiega bene: non significa niente «criticare Israele», e come dire che si può criticare l’Italia, o la Francia.

Si può avere da dire su questo o quel governo, ma è assurdo criticare l’entità Italia: che cosa? L’antica Roma? Riccione? Venezia? Berlinguer? Berlusconi? Chi rivendica la «critica a Israele» e questo è il tema di fondo del libro, rivendica un diritto abominevole, reso inammissibile dalla storia: il diritto all’antisemitismo.

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