La Corte costituzionale raccontata da un giurista

Un saggio di Zagrebelsky sulla Consulta, tra indirizzi programmatici e tentazioni politiche

Dopo essere stato giudice e presidente della Corte costituzionale, dal 13 settembre 2004 Gustavo Zagrebelsky è tornato a insegnare all’Università e ha subito buttato giù un libriccino la cui importanza è inversamente proporzionale al suo formato: Principî e voti (Einaudi, pagg.131, euro 8). Una chicca sul concreto funzionamento della Consulta che si assapora pagina dopo pagina. Sono considerazioni, quelle di Zagrebelsky, che non si trovano sui manuali di diritto costituzionale. La sua è una testimonianza dal di dentro sull’effettiva attività della Corte. E perfino gli addetti ai lavori avranno da imparare.
Il libro si presta a una duplice chiave di lettura. Da un lato l’autore ripensa ai nove anni trascorsi nel Palazzo a fianco del Quirinale. E ci rivela che lui stesso, che pure è un giurista coi fiocchi da gran tempo, si è sentito nei primi tempi posto un po’ sotto esame dai colleghi. Dall’altro il volumetto contiene un preciso messaggio di politica costituzionale. La sua tesi è che la Consulta non fa politica. O, per lo meno, non la fa nel senso comune della parola.
«La Corte costituzionale - scrive - è dentro la politica, anzi ne è uno dei fattori decisivi, se per politica si intende l’attività finalizzata alla convivenza. La Corte è non-politica, se per politica si intende competizione tra parti per l’assunzione e la gestione del potere». Poco dopo Zagrebelsky aggiunge: «Ma, si dirà ancora, la Corte nelle sue decisioni esprime orientamenti e di essi si parla tranquillamente come indirizzi di politica giudiziaria. Sì, ma non certo nel senso dell’indirizzo politico di un governo o di una maggioranza parlamentare. Ogni causa è a sé. Non esiste maggioranza precostituita alle singole decisioni né elaborazioni di indirizzi programmatici generali, che richiedano attuazione. Un programma che si frapponesse tra la singola decisione e la Costituzione sarebbe essenzialmente incostituzionale, in contrasto con il dovere di fedeltà alla Costituzione in generale, dovere che esclude ogni vincolo nascente da accordi contingenti, quale discenderebbe da un programma di parte».
È proprio il caso di dire che la lingua batte dove il dente duole. Perché forse mai come oggi si sospetta che questa o quella decisione della Consulta possa essere impregnata di una qual certa politicità. Anche in considerazione del fatto che la maggior parte dei suoi componenti è riconducibile all’area culturale del centrosinistra. Zagrebelsky osserva che ogni giudice «deve esprimersi in quanto giudice della Corte costituzionale, non in quanto giudice eletto o nominato da questo o quello». E noi non abbiamo motivo di dubitarne. Il fatto è che la nostra Costituzione è a potenzialità multiple.

Può essere interpretata in vari modi tutti più o meno compatibili con la sua lettera. E, nel bilanciamento di beni costituzionalmente protetti, nessuno dei giudici potrà spogliarsi del proprio abito mentale. Finendo, lo voglia o no, per far politica.
paoloarmaroli@tin.it

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