Così Carifi trasforma i suoi versi in moderna preghiera

Amato dai critici, dimenticato dagli editori. È il più anomalo dei nostri contemporanei

Così Carifi trasforma i suoi versi in moderna preghiera
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Avere i canini dell’Arcangelo Gabriele sul collo è unamaledizione. La vita di Roberto Carifi, dalle volute agiografiche, il più anomalo tra i poeti di oggi, parel’emblema della culturaitaliana. Morso dall’angelo della vocazione poetica fin da subito, dagli anni del liceo, Carifi è un angelico ribelle.

Nato in provincia, a Pistoia, da una maestra elementare, Licia, e da un padre, Benito, che preferisce le luci della ribalta, a Roma – prima di diventare arredatore cinematografico fa qualche comparsata in pellicole dimenticate come La cripta e l’incubo, di Camillo Mastrocinque – alla routinefamiliare,Carifi vede nella poesia la fuga e la rivalsa, si fa bocciare, e si dà al rock, come voce dei “Diplomati” prima e degli “Ham and Figs” poi, mesce in cocktail afrodisiaco Mick Jagger e Hermann Hesse. Rosolato nel tormento, il poeta, nei torbidi anni Settanta, legge Nietzsche e Heidegger, si laurea su Jean-Jacques Rousseau, fa il ghigno da anarchico, sbarca a Parigi perimpararel’arte psicoanalitica da Jacques Lacan.

L’esordio poetico – più tardi benedetto dall’incontro con Piero Bigongiari – accade nel 1979, con Simulacri e si perfeziona conInfanzia(1984),L’obbedienza (1986), Occidente (1990). Il poeta è sostenuto da una attività intellettuale multipla: il saggista onirico, che arabesca giungle di enigmi («Il corpo dell’Angelo è come una lingua senza alfabeto», sussurra in Il segreto e il dono), il traduttore ammantato di platino (in particolare, il legame linguistico è con Rainer Maria Rilke, di cui ha curato, tra l’altro, la placca L’Angelo, con Georg Trakl e Paul Celan), il pubblicista, anzi, il guru della lirica odierna (su Poesia, la rivista dell’editore Crocetti,firma la rubrica, seguitissima, titolata, con un tot di supponenza, Per competenza). Eppure, nonostante la collezione di nobili epigrafi («voce tra le più potenti nel panorama culturale italiano del secondo Novecento», dice, perentoria, la dida dell’enciclopedia Treccani; «uno degli esiti più alti della poesia contemporanea», lo incensa Franco Cordelli), Carifi, per forma e per stile resta, ancora, a quasi 70 anni – nel settembre del 2018 – un alieno, il grande, angelico alieno della poesia italiana di oggi.

Lo dicono i fatti. Il “mondo” si occupa di quante volte va al bagno Belen più che dell’angelologia di un Carifi invasato; il club dei letterati, poi, è roso da invidie e da paradossali malumori, perciò Carifi, incapace nei giochi di società poetica – ostile all’avanguardismo, non è né l’ennesimo epigono lombardo di Vittorio Sereni ma neppure un esagitato “mitomodernista”, nonostante la prossimità con Giuseppe Conte e Roberto Mussapi – spesso è messo fuori dalla porta dalle antologie più note (ad esempio, il repertorio allestito da Cucchi-Giovanardi per Mondadori, Poeti italiani del secondo Novecento). Così, Carifi, reietto dall’editoria che conta, in attesa di una presunta antologia per LaNave di Teseo, ha trovato rifugio presso il piccolo editore Raffaelli, ostinatamente fuori dalla distribuzione e dalle librerie, che ha giàin catalogo, tra inediti e ristampe, 9 volumi. L’ultimo, La casa nel bosco (pagg. 46, euro 12), chiama in causa, ancora, la dentiera dell’angelo. Diciamo così: la prima fase della poesia di Carifi, con la «sua innegabile carica di suggestione», per quanto un tanto «lacrimevole» (Marco Merlin, uno dei pochi, nel libro critico Nel foco che li affina, che si sia preso la briga di leggere tutto Carifi senza giudizi di circostanza, poco circostanziati), si chiude con Europa (Jaca Book, 1999), dove la fine dell’Occidente – tema continuo nella poetica di Carifi – siincarna negli eventi epocali di Auschwitz e della guerrain Bosnia, conacuti sconcertanti («comincerò il mio racconto da qui, da questa luce di frigorifero che illumina il mio corpo come la costola di un bue»).

Dopo, le zanne dell’angelo colpiscono e affondano. Nel 2004 Carifi è preda di un ictus. Il male, al principio, lo dilania e gli toglie la voce. Poi, la poesia ritorna. Diversa. Nuova. Distillata. Saliva d’angelo. Da Tibet(Le Lettere, 2011), libro di australe nitidezza, Carifi imbraccia una specie di buddismo lirico. Vive da monaco, nella casa toscana, con un aiutante, da grande recluso della poesiaitaliana. «Il monaco prega nella pagoda/ e piange pensando a se stesso», scrive in una di queste poesie ultime, più che altro un breviario, non più poesia, reparto liturgico («Il mio presente è fatto di preghiera...

anche parlando mi accorgo che prego»), requiem di barbagli, consapevolezza che assidera: «Nel cuore del dolore/ incontrerai le cose/ che fanno più male/ gli ictus e le paralisi,/ ma tutti ti seguiranno/ e diverranno esseri di luce». La grande poesia italiana si fa tra gli innaturali balbettii del male. Il grande poeta è quello che ha contato i denti dell’angelo assassino, e trae filastrocche dal morso.

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