Barbara Demick è una giornalista americana che lavora per il Los Angeles Times e il New Yorker e ha trascorso sette anni in Cina come corrispondente. Così è nato I mangiatori di Buddha (Iperborea, pagg. 368, euro 19,50), un libro/reportage in cui racconta «Vita e ribellione in un città del Tibet», ovvero Ngaba: una cittadina, oggi appartenente al Sichuan, situata «all'incirca nel punto in cui l'altopiano tibetano si incontra con la Cina» il che l'ha resa, dai tempi della Lunga Marcia in poi, «una sorta di prima linea». Al punto che oggi, dopo essere stata teatro di una serie di sconvolgenti autoimmolazioni da parte di monaci buddhisti, è di fatto inaccessibile e sottoposta a un controllo totale da parte di Pechino.
Barbara Demick, perché ha deciso di occuparsi del Tibet?
«Quando ero in Cina, il Tibet era la parte più misteriosa del Paese: le uniche notizie arrivavano o dalla propaganda di stato o dagli esuli. Ma noi giornalisti vogliamo vedere proprio quello che non vogliono farci vedere... E Ngaba era il luogo più difficile da raccontare».
Quante volte è stata?
«Sette o otto, per un totale di varie settimane, ma non potevo mai fermarmi lì per la notte».
Che luogo è Ngaba?
«Ngaba è l'enigma della resistenza tibetana: è molto complicato arrivarci ed è dove sono cominciate le autoimmolazioni. È nella parte est dell'altopiano, quindi ci sono da sempre più contatti con il governo cinese ed è una regione di confine, dove i conflitti sono quasi naturali. Inoltre è una terra di forte tradizione intellettuale e artistica ed è vicino al luogo d'origine del Dalai Lama».
Nel libro spiega che la data cruciale è il 1958. Perché?
«Il 1958 a Ngaba è come il 2001, o il 7 ottobre. Quando si parla di Tibet, la gente ha in mente solo Lhasa e il Dalai Lama, ma il Partito comunista cinese arrivò prima a Ngaba e brutalizzò la popolazione: gli attacchi e i maltrattamenti peggiori sono avvenuti proprio lì».
Che epoca era?
«La metà degli anni '50. Un periodo difficile per via del Grande balzo in avanti e della carestia di massa che ne seguì, anche a causa dell'impostazione molto ideologica: ai tibetani era proibito cucinare in casa e raccogliere le loro erbe ed erano costretti a vivere in camerate. I cinesi han non sapevano nulla del Tibet: pretendevano di coltivare riso sull'Altopiano... Quanto allo yak, che è la fonte primaria di carne, non sapevano come allevarlo. E, quando la popolazione opponeva resistenza, gli han erano brutali: di qui i massacri. Una percentuale altissima di tibetani morì».
La stima è di 36 milioni di morti, di cui trecentomila tibetani, tra il '58 e il '62.
«Il Grande balzo in avanti ha causato quella che è forse la peggiore carestia del XX secolo, anche se su questo la competizione fra dittature è forte... E per i tibetani è stato perfino peggio: loro hanno vissuto la stessa Storia vissuta dalla Cina, però più accentuata».
Gli episodi più terribili?
«È difficile stabilirlo. Gli anni '50 sono stati un bagno di sangue. Come racconta una delle voci del libro, Delek, che allora era un bambino, le persone venivano braccate e uccise come lupi, le prigioni erano delle fosse scavate nella terra. Oggi però su quest'area c'è un livello di pressione continua: senza che venga quasi versata una goccia di sangue, la popolazione è totalmente controllata. C'è una dittatura perfetta».
Come funziona?
«La Cina è molto sofisticata: la gente non può neanche respirare... sembra tutto pacifico. Il controllo è esteso anche alle persone fuori dal Paese: i tibetani che vivono a New York, pur con il passaporto americano, hanno paura a parlare con me, per il timore di ritorsioni nei confronti dei familiari e perché, per poter tornare a trovarli, hanno bisogno del visto. E questo è un mezzo tremendo di controllo. Quale forma di repressione è peggiore, quella sanguinaria degli anni '50 o il controllo di oggi? Difficile dirlo».
Come opera il controllo?
«È molto tecnologico: attraverso le telecamere, i telefoni e le app soprattutto, come quelle usate durante il Covid per tracciare spostamenti e contatti. È proibito avere foto del Dalai Lama sui telefonini, che sono controllati ai posti di blocco e non si può avere whatsapp, o si rischia la galera. Poi ci sono le restrizioni sulla religione».
Il buddismo tibetano.
«Il buddismo tibetano è una religione ma è anche cultura: i monasteri, che tante volte sono stati chiusi dai cinesi, sono allo stesso tempo musei, scuole, mercati, biblioteche. Oggi la Cina ha ristretto il numero di persone ammesse nei monasteri e i monaci devono mostrarsi fedeli al Partito. Lo stesso vale per gli impiegati pubblici, che sono moltissimi: insegnanti, autisti di bus, poliziotti subiscono tutti questa limitazione e a loro sono proibiti i simboli del buddismo tibetano. Per loro è difficile scegliere: divento un insegnante e obbedisco alle regole del Partito oppure resto libero ma senza lavoro? È dura vivere una vita normale».
Non è così in tutti i regimi repressivi?
«In altri Paesi repressivi, e ne conosco diversi, se non sei legato alla politica puoi vivere; per i tibetani è molto dura anche solo essere normali».
Chi sono i mangiatori di Buddha del titolo?
«Negli anni Trenta l'Armata Rossa cinese, nella sua Lunga marcia si diresse sempre più verso ovest, fino ad arrivare a Ngaba. A quel punto i soldati cinesi non avevano più provviste e iniziarono a mangiare le scorte dei tibetani; finché scoprirono che le statuette votive nei templi erano fatte di farina e burro, così iniziarono a mangiare quelle... È come divorare una cultura e per me è un simbolo della relazione fra la Cina e i tibetani».
E le autoimmolazioni?
«Sono una presa di posizione forte. Per i tibetani, la non violenza è qualcosa di molto serio: una volta, mentre mangiavo con un monaco, una mosca è caduta nella zuppa e lui mi ha invitato a dire una preghiera... Inoltre per il buddismo tibetano il suicidio è proibito, perché interrompe il ciclo naturale di morte e rinascita e uccide i microbi nel corpo umano. Le autoimmolazioni sono cominciate per commemorare le persone uccise durante le proteste del 2008 e hanno subito destato molta attenzione: il governo cinese ha perso la faccia in quel momento».
Perché?
«Il Partito comunista cinese ha l'ossessione di non apparire imperialista, perciò è fondamentale che i tibetani sembrino felici; di qui tutta la propaganda sui tibetani che sorridono e ballano mentre in realtà soffrono... Quindi, se un monaco tibetano si autoimmola, per la Cina è imbarazzante. Per i monaci la vita è diventata ancora più dura a causa dell'obbligo di mostrare disprezzo nei confronti del Dalai Lama: per loro, come per la maggioranza dei tibetani, è impossibile. Una provocazione».
Perché la Cina ha imposto questo trattamento verso il Dalai Lama?
«Sono spaventati da ogni persona o simbolo o religione per le una persona possa mostrare più fedeltà che al Partito. Oggi le restrizioni sono estese anche alla lingua tibetana, al suo insegnamento e alla sua diffusione. C'è ormai una repressione soffocante sulla vita delle persone».
È peggiore che altrove?
«Sì.
Questa dittatura perfetta, senza sbavature, quasi invisibile, è molto calma, apparentemente priva di violenza e attira poca attenzione: così i cinesi hanno sottratto il dibattito agli occhi del grande pubblico e possono portare avanti la linea ufficiale, di avere realizzato la liberazione pacifica del Tibet».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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