Il massimalismo socialista è sempre stato portatore di sciagure nella vita sociale e politica del nostro Paese. Ebbe un ruolo nefasto nel «biennio rosso» 1919-20, con lo scatenamento di un numero impressionante di scioperi che paralizzavano i servizi essenziali e sconvolgevano la vita civile, con l’occupazione delle fabbriche, con la minaccia di una rivoluzione bolscevica. Un testimone certo non prevenuto come il liberale Giovanni Amendola affermò che era stato un grande merito del fascismo aver risparmiato all’Italia «l’esperienza mortale del leninismo».
Un ruolo nefasto ebbe altresì il massimalismo socialista nel secondo dopoguerra, quando portò il Psi a un completo vassallaggio verso i comunisti, fino a presentarsi insieme al Pci nelle elezioni politiche del 1948, sotto le insegne del «Fronte popolare». Questa scelta sciagurata privò la politica italiana di un partito socialista democratico, e provocò un tracollo nei consensi del Psi: mentre nelle elezioni del 1946 esso aveva preso più voti del Pci (il 20,7 per cento contro il 19), dopo il «frontismo» il Pci passò in forte vantaggio (nelle elezioni del 1953 i comunisti presero il 22,6, i socialisti il 12,7).
Ma credo che si possa dire che, anche quando il Psi si emancipò dal Pci, e avviò con la Democrazia Cristiana la politica di centro-sinistra, il massimalismo socialista non venne mai meno, e anzi condizionò pesantemente quella politica. Che cosa fu la posizione di Riccardo Lombardi - che concepiva le cosiddette «riforme di struttura», che il centro-sinistra avrebbe dovuto realizzare, come altrettanti anelli per il «superamento» della società capitalistica - se non una ripresa del vecchio massimalismo (che in Lombardi aveva un’ascendenza azionistica)? E non si iscriveva nel solco del massimalismo la politica del segretario socialista Francesco De Martino, che nella prima metà degli anni Settanta riportò il proprio partito sotto il tallone comunista, dichiarando che i socialisti non sarebbero mai più ritornati al governo senza i comunisti, per realizzare «equilibri più avanzati»? E ancora una volta il massimalismo socialista ottenne quello che aveva già ottenuto con Nenni all’epoca del «frontismo»: il disastro elettorale del Psi, calato sotto il 10 per cento (e dunque minacciato nella sua stessa esistenza), mentre il Pci mieteva il suo ennesimo successo elettorale.
Credo che occorra tenere ben presente questo quadro per poter apprezzare in tutto il suo coraggio e in tutta la sua forza la politica avviata da Craxi alla guida del Psi dal 1976 in poi. Craxi mise la parola fine a questo massimalismo vergognoso e straccione; collocò l’autonomia socialista dal Pci su binari forti e sicuri; individuò nelle socialdemocrazie europee (soprattutto in quella tedesca dopo la revisione di Bad Godesberg) un punto di riferimento essenziale; avviò il partito a governare una società fondata sull’impresa e sul mercato, cioè una società capitalistica. Fu un’impresa di grandissimo rilievo (sia culturale che politico), quella di Craxi, come documenta con intelligenza e con dovizia di notizie e di dettagli Bruno Pellegrino nel suo libro L’eresia riformista. La cultura socialista ai tempi di Craxi (Guerini e Associati, pagg. 236, euro 19,50).
Il nuovo segretario socialista promosse un forte attacco alla tradizione politico-culturale comunista. In primo luogo venne investita la matrice leninista del Pci, e fu mostrata la sua radicale incompatibilità con la democrazia occidentale. Poi venne rivolta una critica ampia e circostanziata a Gramsci, contro la pretesa comunista di fare del pensatore sardo il santino di un marxismo italiano, nazionale e democratico: la concezione gramsciana dell’«egemonia» del Pci mostrava chiaramente la sua origine leninista ed era incompatibile col pluralismo politico e culturale. Fu mostrato poi che il «compromesso storico» proposto da Berlinguer aveva le sue radici nel togliattismo che, per via del suo legame di ferro con l’Urss, aveva bloccato sempre l’alternanza nel sistema politico italiano, impedendone ogni ricambio. Fu respinta infine l’idea berlingueriana di una «terza via» fra comunismo sovietico e socialdemocrazia: la via era una sola, ed era quella che si fondava sui valori e sulle regole della democrazia liberale occidentale.
Questa vasta offensiva politico-culturale venne portata avanti dalla segreteria Craxi con vari strumenti. Fra questi ebbe un ruolo fondamentale la rivista Mondoperaio, che registrò una vasta adesione e collaborazione di intellettuali di prestigio. Craxi (il socialista più odiato dai comunisti e da loro gratificato con epiteti ripugnanti) ottenne con ciò un risultato importantissimo: mise in crisi l’egemonia culturale comunista, già messa a dura prova dalle convulsioni e dai disastri che si verificavano nei Paesi del blocco sovietico.
Certo, la politica di Craxi ebbe anche un limite, come mette ben in rilievo Pellegrino: essa si arroccò, nella seconda metà degli anni Ottanta, in un’alleanza con la Dc che le impedì di intercettare la sempre più grave crisi comunista.
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