Che cos'è un «santo»? Qual è il senso di questa parola nel mondo di oggi? Noi figli del disincanto talvolta ci imbattiamo in qualcuna di queste persone (che esistono, altroché) e la loro diversità ci colpisce come una anomalia che però non riusciamo a non ammirare, sia pur con un certo senso di fastidio come succede quando davanti a qualcosa scopriamo di non sapere cosa pensare.
Nella sua celebre prefazione al volume Santi di Cyril Martindale (ed. Jaca Book) Luigi Giussani inizia con queste parole: «Il santo è un uomo». La cosa interessante di questo esordio memorabile sta nel fatto che proprio Luigi Giussani, o meglio don Luigi Giussani, ha speso, si può dire, tutta la sua vita indagando sulla domanda di fondo: che cos'è un uomo?
Risuonano le parole misteriose del Salmo 8: «che cos'è l'uomo perché di lui ti ricordi/ un figlio d'uomo perché te ne curi?». Perché Dio sembra dare tanta importanza a questo ammasso di cellule, a questo Dna così simile (dicono) a quello di un calabrone?
Ma i santi esistono intorno a noi, basta saperli e volerli guardare: la salvezza è una questione di dettagli. E un libro uscito da poco, ma già un piccolo best-seller, ce ne offre un esempio.
La meravigliosa storia di Andrea Aziani (Abbiategrasso 1951 - Lima 2008), di cui è in corso il processo di beatificazione, splende nelle pagine semplici del volume Andrea Aziani, Febbre di vita di Gianni Mereghetti e Gian Corrado Peluso (Itaca, pagg. 222, euro 15). Gli autori non sono scrittori, sono però amici cari, fin dall'adolescenza, di Andrea, e con lui hanno condiviso una parte fondamentale della loro vita. Dalle loro parole traspare uno stupore semplice che forse uno scrittore di professione faticherebbe di più a descrivere.
Un santo non è necessariamente una persona eccezionale, e se lo è il cammino di santificazione resta lo stesso per lui come per chiunque altro. Insomma, nessuno nasce santo, ma tutti sono chiamati a diventarlo: perciò Dio ha cura degli uomini.
Andrea era una persona eccezionale, fin da bambino. Il libro ce lo descrive alunno modello ma non spocchioso, ottimo giocatore di calcio, chierichetto fedele e poi, nel tempo dell'adolescenza, impegnato con tutto sé stesso tanto nella fede quanto nella passione per la giustizia. Molti lo ricordano con l'immancabile basco in testa, sempre in movimento (per parlare con lui bisognava stare al suo passo rapidissimo), sempre teso a quello cui andava incontro come a una specie di incontro definitivo.
Intelligenza, bontà, generosità gli erano stati elargiti a piene mani: lui vedeva più lontano degli altri, e meglio degli altri conosceva l'importanza di tutte le persone e di tutte le cose, e quindi il dovere di portare tutto (da una partita di calcio allo studio all'assistenza a una persona sofferente) fino in fondo.
Ma questo è sufficiente a riempire una vita? Se un santo è un uomo, che cos'è un uomo? A che scopo ci è stato dato quello che abbiamo ricevuto? È la domanda del pastore di Leopardi, che di notte, solo, davanti al cielo stellato, sgomento si chiede: a che?
Qui si colloca l'evento principale della vita di Andrea, l'incontro con don Giussani, un incontro che Andrea volle con tutte le sue forze. Giussani, se così posso dire, offrì ad Andrea la via maestra: se tutto quello che cominciamo va portato in fondo, questo misterioso fondo che cos'è? Se tutto è importante, qual è la cosa più importante? Don Giussani non insegnò ad Andrea la fede, ma la pertinenza della fede con tutto ciò che esiste, affinché il mondo si salvi.
A tutte le virtù di Andrea se ne aggiunse da allora una speciale: l'obbedienza, fino (letteralmente) alla morte.
Ho conosciuto e incontrato Andrea più volte. Parlare con lui era come stare accanto a un fuoco purificatore, capace di riconoscere il valore enorme della cosa più piccola e, insieme, di mettere in mostra con un sorriso affettuoso l'inconsistenza di tante cose che credevo importanti. Mi colpì fin dalla prima frase che sentii uscire dalla sua bocca: «Diamoci da fare, dobbiamo meritarci il purgatorio».
Dopo la laurea a Milano, Andrea si trasferì a Siena e poi a Firenze, poi un giorno partì per il Perù in compagnia del suo immancabile, grande amico Dado Peluso. Partì con un indirizzo in tasca e un numero di telefono, e dopo pochi anni a Lima era nata intorno a lui un'università che divenne nel tempo sempre più grande. Il libro reca una traccia preziosa di quel tempo riportando molte sue lettere scritte agli amici lontani, spesso gente comune, sconosciuta, che lui trattava come se fossero re. So di apparire retorico, ma è così: per Andrea ogni persona era la persona più importante del mondo, e tale fui anch'io, nelle due settimane che passammo insieme, a Siena, nel 1977.
Andrea morì nel luglio del 2008, all'improvviso, durante una riunione, a Lima. La vita che questo libro testimonia - ma tanti altri libri su Andrea usciranno, negli anni - è la vita di una persona eccezionale, senza dubbio.
Ma, a differenza di Bach e di Shakespeare, di cui possiamo solo ammirare sgomenti la grandezza, l'eccezionalità di Andrea Aziani è più profonda, e ci inquieta di più perché ci riguarda in modo inesorabile. Nessuno di noi potrà essere come Bach, mentre quello che Andrea ci ha trasmesso con la sua fragile vita riguarda il senso profondo di ogni nostra azione, di ogni pensiero. Quand'è che una parola, un'azione, un pensiero sono veramente umani? «Dunque» dice S.
Paolo «sia che mangiate sia che beviate sia che facciate qualsiasi altra cosa, fate tutto per la gloria di Dio».E Dio è questo: la profondità dell'umano. Andrea Aziani ci ha testimoniato questa verità in tutti gli istanti della sua vita.
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