Non stupisce che Lawrence Ferlinghetti, ultimo superstite della Beat generation, sia affranto per l'elezione di Trump e tiri in ballo il fascismo. Con passione e fiuto imprenditoriale pubblicò i libri di Kerouac, Burroughs e Ginsberg negli Usa e non era solo letteratura, ma un programma, più o meno consapevole, di demolizione della borghesia bianca anglosassone e protestante. Vero padre della controcultura a stelle e strisce e ormai globale, Ferlinghetti ha proposto di occupare pacificamente la Casa Bianca. Anche perché l'esperimento del presidente nero agognato da decenni non ha esaltato e quello del presidente donna per ora è sfumato.
Nell'attesa della candidatura di Michelle Obama, la controcultura lavora con accanimento alla caduta di Trump. Allen Ginsberg e William Burroughs si sarebbero uniti alla lotta? Il quesito ha senso perché è tempo di bilanci, a vent'anni dalla morte di entrambi gli autori di Urlo e del Pasto nudo. Due volumi recenti editi da Il Saggiatore meritano attenzione anche per meditare su ciò che rimane della generazione «battuta e beata». Io sono Burroughs di Barry Miles (pagg. 812, euro 40, traduzione di Fabio Pedone) è la biografia definitiva di un uomo che bene ha incarnato lo spirito di un'epoca e ha descritto le metamorfosi più eclatanti dell'immaginario. Fu uxoricida per errore, tossicomane, omosessuale, affascinato dal crimine in gioventù e dalla magia sciamanica nella maturità. Tutto pur di fuggire l'alta borghesia del Missouri in cui era nato. E allora nomade in luoghi e civiltà che guarda caso oggi c'entrano eccome coi problemi e i dibattiti d'America: Messico, mondo islamico, vecchia Europa. È indubbio che Burroughs abbia lasciato un'impronta significativa in tutta la cultura pop occidentale, dai Beatles agli U2, senza trascurare gruppi musicali più oscuri ed estremi nei temi e nei suoni punk, elettronici o metal. Le correnti letterarie del cyberpunk e dell'Avant Pop, inoltre, hanno sempre dichiarato il debito nei suoi confronti. Anche il genio sregolato e generoso del franco-canadese Maurice G. Dantec, morto lo scorso giugno, era ispirato dalla figura di Burroughs, omaggiata nell'ultimo romanzo pubblicato in vita.
Forse meno lampante l'eredità di Allen Ginsberg, di cui Il Saggiatore ha pubblicato Non finché vivo. Poesie inedite 1942-1996 (pagg. 375, euro 28, traduzione di Leopoldo Carra). Versi appunto inediti, ma significativi e spesso all'altezza del Ginsberg più noto. La felice scelta dell'ordine cronologico, diviso in decenni, permette di leggere il tutto come un abbozzo di biografia. Si parte dai primi timidi tentativi e si sfocia nell'esplosione dopo il coinvolgimento in quel cenacolo rimbaudiano in bilico fra alta letteratura e delinquenza, già formato da Burroughs e Kerouac, il seme del Beat. E allora la trafila di droghe e bisessualità, fino alla sistemazione omo e decennale con il collega e complice Peter Orlovsky. Poi ci sono gli anni dei viaggi, quelli in cui Ginsberg credeva veramente che l'umanità stesse cambiando in meglio grazie ai suoi versi e ai 33 giri di Dylan e Lennon. Nel settembre 1970 scriveva che l'anima del mondo si stava destando, ancora nel gennaio dell'86 cantava dal Nicaragua «la spiritualità africana salverà la Terra». Obama era poco africano e probabilmente poco spirituale, ma Ginsberg non ha avuto la possibilità di testarlo. Fece però in tempo a vedere il telegiornale con le immagini dell'attentato al World Trade Center, quello del febbraio 1993. Era in una camera d'ospedale, dove il poeta Carl Solomon stava morendo e ancora aveva voglia di far poesia orale. L'amico, che lo seguirà quattro anni dopo, registra le ultime parole di Solomon mentre New York brucia e un senso di minaccia lascia presagire non i pacifici «angeli maomettani» evocati in Urlo.
Dunque oggi, se fossero ancora in vita, un Burroughs ultracentenario e un Ginsberg novantunenne cercherebbero di occupare la Casa Bianca con Ferlinghetti? Avevano provato a farla levitare con una stregoneria dadaista nel 1968, senza apparente risultato. La risposta è che ai due eroi della controcultura Trump non piacerebbe affatto, ma sarebbero molto scettici sulle alternative. Perché in loro rivisse e si trasmise soprattutto la tradizione nordamericana dell'individualismo libertario, quella di Whitman, Thoreau, Jack London. Tradizione nemica di ogni potere, di ogni intrusione nella vita privata dei cittadini, libera di possedere armi, come faceva Burroughs nonostante l'incidente che costò la vita alla moglie, di rinverdire il mito del superamento di frontiere, non più solo fisiche, ma anche psichiche, di coscienza.
Ciò che rimane dei Beat è ciò che rimane della migliore America, dal delirio razionale di Poe alla fuga di Huckleberry Finn verso sud in compagnia di un negro, non a caso considerata da Hemingway la narrazione archetipica nazionale. Comunque, all'angoscia attivistica di Ferlinghetti sostituiremmo il distacco buddhista dell'ultimo Ginsberg e la calma androide di Burroughs.
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