"Così ho incontrato per la prima volta la donna della mia vita: Emma Bovary"

Nel 1959, lo scrittore Vargas Llosa arriva a Parigi. E compra un classico...

"Così ho incontrato per la prima volta la donna della mia vita: Emma Bovary"

Ho sempre ritenuto vera la frase attribuita a Oscar Wilde su un personaggio di Balzac: «The death of Lucien de Rubempré is the great drama of my life». Una manciata di personaggi letterari ha segnato la mia vita in modo più duraturo di buona parte degli esseri in carne e ossa che ho conosciuto. Nonostante sia vero che quando personaggi della finzione ed esseri umani si fanno presente, contatto diretto, la realtà di questi ultimi prevale su quella dei primi niente possiede tanta vita come il corpo che si può vedere, palpare , la differenza viene meno quando entrambi tornano a essere passato, ricordo, e con un considerevole vantaggio dei primi sui secondi, la cui deliquescenza nella memoria è senza rimedio dato che il personaggio letterario può essere risuscitato all'infinito con lo sforzo minimo di aprire le pagine del libro e soffermarsi sulle righe adeguate. In tale circolo eterogeneo e cosmopolita, combriccola di fantasmi amici che si rinnova a seconda dell'epoca e dell'umore oggi menzionerei, alla svelta, D'Artagnan, David Copperfield, Jean Valjean, il principe Pierre Bezukhov, Fabrizio del Dongo, i terroristi Cheng e The Professor, Lena Grove e il forzato alto , nessuno di più persistente e con cui abbia avuto una relazione più chiaramente passionale di Emma Bovary. Questa storia può contribuire, forse, a illustrare con un esempio minimo le relazioni tanto discusse ed enigmatiche della letteratura e della vita.

Il primo ricordo che ho di Madame Bovary è cinematografico. Era il 1952, una rovente serata estiva, un cinema appena inaugurato nella Plaza de Armas in un turbine di palme di Piura: James Mason compariva nei panni di Flaubert, Rodolphe Boulanger era lo slanciato Louis Jourdan e Emma Bovary prendeva corpo nelle espressioni e nei movimenti nervosi di Jennifer Jones. L'impressione non dovette essere grandiosa perché il film non mi spinse a procurarmi il libro, nonostante, proprio in quel periodo, avessi iniziato a leggere romanzi in modo insonne e cannibalesco.

Il mio secondo ricordo è accademico. In occasione del centenario di Madame Bovary l'Universidad de San Marcos, a Lima, aveva organizzato una giornata di commemorazione nell'Aula Magna. Il critico André Coyné, impassibile, metteva in dubbio il realismo di Flaubert: le sue argomentazioni soccombevano tra le grida di Viva l'Algeria Libera e il vociare con cui un centinaio di sanmarquinos armati di sassi e bastoni avanzavano lungo la sala verso il palco su cui il loro obiettivo, l'ambasciatore francese, li attendeva livido. Parte dell'atto commemorativo consisteva nell'edizione, in una plaquette i cui caratteri rimanevano sulle dita, di Saint Julien l'Hospitalier, tradotto da Manuel Beltroy. È il primo scritto di Flaubert che ho letto.

Nell'estate del 1959 arrivai a Parigi con pochi soldi e la promessa di una borsa di studio. Una delle prime cose che feci fu comprare, in una libreria del quartiere latino, una copia di Madame Bovary nell'edizione dei classici Garnier. Iniziai a leggerlo quella sera stessa, in una stanzetta dell'Hotel Wetter, nelle immediate vicinanze del museo Cluny. È lì che comincia davvero la mia storia. Fin dalle prime righe il potere di persuasione del libro agì su di me in modo fulminante, come un incantesimo potentissimo. Era da anni che nessun romanzo vampirizzava così rapidamente la mia attenzione, aboliva lo spazio fisico e mi sommergeva tanto a fondo nella sua materia. Man mano che avanzava la sera, scendeva il buio, faceva capolino l'alba, sortiva sempre più il suo effetto l'effluvio magico, la sostituzione del mondo reale con quello fittizio. Si era appena fatto giorno Emma e Léon si erano da poco conosciuti in un palco dell'Ópera di Rouen quando, frastornato, posai il libro e decisi di dormire: nel difficile sonno mattutino continuavano a esistere, con la veracità della lettura, la fattoria dei Rouault, le strade infangate di Tostes, la sagoma bonacciona e stupida di Charles, la massiccia pedanteria rioplatense di Homais e, al di sopra di tali persone e luoghi, come un'immagine presagita in migliaia di sogni dell'infanzia, intuita fin dalle prime letture adolescenti, il viso di Emma Bovary. Quando mi risvegliai per riprendere la lettura, è impossibile che non abbia sentito due certezze assolute come lampi: sapevo quale scrittore mi sarebbe piaciuto essere e che da quel momento fino alla morte avrei vissuto innamorato di Emma Bovary. Lei sarebbe stata per me, da quel momento in poi, come per il Léon Dupuis della prima epoca, «l'amoureuse de tous les romans, l'héroïne de tous les drames, le vague elle de tous les volumes de vers».

Da allora ho letto il romanzo circa mezza dozzina di volte dall'inizio alla fine e ho ripreso capitoli ed episodi sparsi in parecchie occasioni.

Non ho mai sentito disincanto, a differenza di quel che mi è successo nel rileggere altre storie amate, anzi, soprattutto nel riprendere i punti salienti i comizi agricoli, la passeggiata in carrozza, la morte di Emma ho sempre avuto la sensazione di scoprire aspetti segreti, dettagli inediti, e l'emozione è stata, con varianti di grado che avevano a che fare con la circostanza e il luogo, identica.

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