
La scia di sangue seguita all'occupazione tedesca e alla Resistenza sembra non finire mai. È il 31 ottobre 1946 quando Nora Conforti viene uccisa in un agguato, come è successo l'anno prima al padre Agostino, vittime entrambi di un odio spietato contro la ricca borghesia agraria emiliana. L'omicidio di Nora chiudeva il romanzo I tre inverni della paura, scritto nel 2008 da Giampaolo Pansa, racconto delle vicende della famiglia Conforti negli anni della guerra civile. Adele Grisendi, compagna di vita del giornalista che ha tanto indagato sul «sangue dei vinti», riprende ora il filo di quella storia nel romanzo La figlia di Nora, pubblicato per i tipi di Rizzoli (pagg. 380, euro 20). Nelle sue pagine racconta la vita della figlia della donna uccisa, Giulia, rimasta orfana a poco più di tre anni, quando il suo fratellino, Genio, è ancora nella culla. È un romanzo corale che racconta un pezzo di storia d'Italia. Un pezzo nato dalle ceneri rabbiose della guerra, così difficili da lasciarsi alle spalle. Ne abbiamo parlato con l'autrice.
Adele Grisendi, perché ha deciso di riprendere il filo di un romanzo di Pansa?
«Perché quando Giampaolo tornò a pubblicare per Rizzoli con I tre inverni della paura mi disse: Io mi occupo della parte storica e di ricerca che è molto impegnativa, tu costruiscimi la parte di fiction familiare. Facemmo così e lui adeguò le parti che avevo preparato modulandole alla sua scrittura. Ma questa storia mi è rimasta sempre nel cuore e nella testa, in un certo senso io avevo già in mente anche il dopo, e avevo chiesto a Gianpaolo di portarlo avanti. Volevo partire dalla guerra e arrivare sino agli anni del terrorismo rosso. Ma Pansa non se la sentiva perché pensava di aver già scritto troppo sul terrorismo e sul dopoguerra. Così alla fine l'ho fatto io».
Quale Italia del Dopoguerra voleva raccontare?
«Volevo un romanzo che fosse un faro acceso sulla realtà dell'Emilia e sulla storia italiana. C'è un interno familiare complicato ma attento a quel che accade nel Pci di Reggio che era una forza onnicomprensiva e arrivava dappertutto. Raccontare le vicissitudini di una famiglia che si portava dietro una memoria complessa e che viene rimossa. Perché dentro il comunismo c'era la massa degli idealisti e anche chi nella dirigenza doveva coprire con un velo i crimini di cui non si poteva parlare. E poi volevo raccontare le malinconie di chi è cresciuto con una perdita forte, con un vuoto causato dalla guerra, con un'assenza...».
Perché già Pansa aveva scelto la forma romanzo?
«La forma romanzo è quella che consente di far emergere i sentimenti, le emozioni. L'aveva scelta per questo. Ed è il motivo per cui l'ho scelta io. Mi interessava mettere al centro di una vicenda storica una bambina cresciuta con un vuoto. Una sensazione che conosco, perché quando nacqui mia madre ebbe una forma di depressione post partum. Erano altri tempi e non c'era l'attenzione che c'è ora: l'unica soluzione all'epoca fu l'ospedale psichiatrico. La riebbi vicina solo ad un anno e mezzo, e non fu semplice. Insomma, diciamo che ci ho messo del mio, partendo da un'emozione che ho provato».
Che effetto le
ha fatto tornare a lavorare su una storia su cui aveva lavorato con Pansa?«Che dire? L'ho sentito tutto il tempo molto vicino, non credo di poter descrivere la cosa in un altro modo, me lo sono sentito accanto».
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