Così l'Occidente plasmò l'idea di Oriente

Torna l'opera in cui Edward Said spiegò come la nostra cultura si rese complice del colonialismo

Così l'Occidente plasmò l'idea di Oriente

Il saggio Cultura e imperialismo, di Edward Said (1935-2003), che ora esce in Italia (Feltrinelli, pagg. 498, euro 39; trad. Anna Tagliavini e Stefano Chiarini), uscì nel 1993, quando era da poco terminata la prima guerra «americana» del Golfo, la cosiddetta «Desert Storm», e il Medio Oriente si avviava a essere quel vaso di Pandora scoperchiato il quale ogni disordine, nazionale e internazionale, sarebbe divenuto possibile.

Per la sua storia umana e professionale, Said era l'intellettuale più adatto per interrogarsi sul rapporto culturale e non solo fra Oriente e Occidente: palestinese, nato a Gerusalemme nel 1935, profugo in Libano e poi esule in Egitto (Out of Place, ovvero «fuori luogo», «fuori posto», sarà il titolo della sua autobiografia), era in seguito approdato negli Stati Uniti, studiando a Princeton e a Harward per divenire infine professore di Letteratura comparata alla Columbia University e una delle massime autorità nel suo campo. Orientalismo, uscito nel 1978, è il suo libro più famoso, il racconto dell'immagine dell'Oriente attraverso la letteratura d'Occidente: romanzi, resoconti di viaggio, saggi storici e saggi critici dalla la fine del XVIII secolo alla metà del XX secolo. Detto in altri termini, la convinzione che non esistesse un Est in sé, in quanto tale, ma che quell'Est prendesse formao nella misura in cui era l'Ovest a rappresentarlo.

Cultura e imperialismo è il naturale prolungamento di Orientalismo, nel senso che ciò che a prima vista poteva sembrare, da Cuore di tenebra di Conrad al Kim di Kipling al Passaggio in India di Forster, la creazione romanzesca di singoli scrittori, e che come tale impegnava soltanto i diretti interessati, in realtà faceva parte, più o meno coscientemente, di un progetto coloniale di egemonia e di consenso grazie al quale l'Occidente fissava una volta per tutte che cosa fosse l'Oriente e contemporaneamente stabiliva sua sponte che cosa per l'Oriente fosse giusto o sbagliato. «L'Oriente - scrive Said nel tirare le somme del colonialismo europeo fra '800 e '900 - non era per inglesi e francesi un'improvvisa scoperta, un mero accidente storico, ma un mondo a est dell'Europa, il cui valore era sempre stato definito solo in relazione a quest'ultima, rivendicando in particolare all'Europa, alla sua scienza, ai metodi amministrativi, il merito di aver fatto dell'Oriente ciò che esso era».

Il paradosso è che nonostante i processi di decolonizzazione, le guerre di indipendenza, i «non allineamenti internazionali» e insomma tutto il travagliato risveglio del cosiddetto sud del mondo, quell'«immagine europea» dell'Oriente si è trasferita tale e quale oltre Atlantico, dove un altro impero ha preso il posto di quelli ormai defunti, ma senza che il meccanismo interpretativo subisse alcun cambiamento. Ai tempi di «Desert Storm», racconta ancora Said, nei dibattiti giornalistici, carta stampata, radio, televisione, «raramente fu fatta menz

ione degli arabi come parte in causa della guerra, come vittime o anche (il che sarebbe stato altrettanto convincente) come artefici. Si aveva l'impressione che la crisi dovesse essere affrontata interamente in pectore, come una questione interna degli americani. L'imminente conflagrazione, con le sue prospettive di terribili distruzioni, era lontana; ancora una volta, tranne che per i pochissimi corpi che arrivarono chiusi nelle sacche e per le famiglie colpite dal lutto, gli americani ne furono risparmiati. L'astrattezza di tutto ciò rese la situazione fredda e crudele».

A proposito dell'impero americano e della sua missione moralizzatrice volta a castigare «il malvagio di turno», Sadid fa un paragone interessante con il Moby Dick di Melville lì dove il capitano Ahab è talmente ossessionato dalla balena bianca da rimetterci vita, nave e equipaggio... La seconda metà del XX secolo è costellata di interventi militari in tal senso i cui unici risultati sono consistiti nello scavare ancor più a fondo il fossato dell'incomprensione e nell'alimentare lo spirito di rivalsa tanto più forte quanto i già citati sud del mondo si moltiplicano. In una sorta di coazione a ripetere continuiamo a remare controcorrente, risospinti senza posa verso il passato, per usare quella suggestiva immagine di Fitzgerald che chiude Il grande Gatsby.

Il passato, del resto, è il terreno di coltura del rapporto Occidente versus Oriente, il rimpianto per ciò che è stato, un senso di frustrazione e di rancore di fronte al fatto che l'Oriente vorrebbe fare da sé, disfarsi di quello che kiplinghianamente l'uomo bianco continua a ritenere il suo «fardello». «Perché mai non ci apprezzano dopo tutto quello che abbiamo fatto per loro?» si lamentano indignati i sostenitori di un Occidente monolitico, così come «di un mondo unico delle ex colonie descritto in base a una serie di superficiali generalizzazioni». Va da sé, osserva Said, che questa lettura autoconsolatoria di una generosa mano occidentale che continua a essere morsa da molteplici quanto ingrate bocche orientali, vuol dire continuare a ignorare «le popolazioni sfruttate delle ex colonie che per secoli avevano dovuto sopportare una giustizia sommaria, un'oppressione economica senza fine, la distorsione della loro vita sociale e personale e una sottomissione senza appello che era funzione di un'immutabile superiorità europea». Tutto ciò è possibile perché continua a essere data per scontata «la superiorità e persino l'assoluta centralità dell'Occidente», con gli esiti grotteschi che abbiamo sotto gli occhi e che dimostrano l'esatto contrario, come nel caso di una Russia isolata dalla «sanzioni occidentali» quando bastava mettere insieme Cina e India, lasciando stare l'Africa, che di quelle sanzioni non sapeva che farsene, per capire che le cose stavano diversamente.

È scoraggiante, ci dice Said, che alla fine del XX secolo e, aggiungiamo noi, adesso che il XXI è già a un quarto del suo percorso, ci si «ritrovi trasportati indietro nel tempo, alla fine dell'800». Bisogna tornare a Cuore di tenebra di Conrad per riannodare i fili dell'incomprensione fra Est e Ovest. Il romanzo di Conrad, oltre a essere un meraviglioso gioiello narrativo, era il prendere atto che «nell'ultimo decennio dell'Ottocento, quello che un tempo era l'affare rappresentato dall'impero, impresa avventurosa e quasi sempre individuale, si era trasformata nell'impero degli affari». Tuttavia Conrad, da figlio sia pure spurio dell'impero britannico, per quanto potesse capire che la «tenebra» facesse parte della mistica coloniale, «l'orrore, l'orrore», del suo personaggio Kurz e del suo delirio di onnipotenza, non riusciva a percepire che l'altra «tenebra», quella non europea, fosse «in realtà un mondo che resisteva all'imperialismo per riacquistare un giorno sovranità e indipendenza» e non per sprofondare indefinitamente nel proprio buio... La luce, insomma sorgeva solo a ovest, anche se, astronomicamente parlando, era un'eresia...

Conrad, come del resto Kipling, erano figli del loro tempo, di quando cioè gli imperi erano delle realtà e un critico d'arte come John Ruskin poteva pensare che il compito dell'Inghilterra fosse quello di governare il mondo perché la migliore delle nazioni...

Se si dà uno sguardo agli avvenimenti coevi a quest'ultimo, si vedrà che dalla guerra dell'oppio in Cina, nel 1835, alla conquista dell'Egitto nel 1882, è un susseguirsi di campagne d'oltre mare tutte concluse con il consolidamento di conquiste coloniali. Se si prende un arco simile nell'ultimo quarantennio, non si ha la stessa impressione, ma ci si ritrova di fronte a un continuo prodursi di macerie e di instabilità. Sarebbe il caso di cominciare a chiedersi perché.

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