Così Trinci difende la lingua dai social

Ai tempi di internet la lingua cambia così velocemente che neppure gli accademici riescono a star dietro a tutto

Così Trinci difende la lingua dai social
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Ai tempi di internet la lingua cambia così velocemente che neppure gli accademici riescono a star dietro a tutto. Non si è mai scritto così tanto come ai tempi dei social. Senonché, non si è mai neanche scritto così male. Fateci caso: se andate alla sezione commenti di, per esempio, Youtube, non ce n'è forse uno su cinquanta che non contenga qualche errore, a partire dalla punteggiatura, che in pratica non esiste più. Eppure, com'era solito sostenere Leonardo Sciascia, «la scrittura è ragionamento». E infatti nella savana del web i ragionamenti dotati di un costrutto sono rari come il rinoceronte nero. Si dà colpa della sciatteria della lingua alle famiglie, alla scuola, all'uso smodato degli smartphone. Gli insegnanti fanno quello che possono. Il vocabolario collettivo si restringe, proliferano le frasi fatte. Allo stesso tempo si creano e si solidificano sacche di resistenza di chi invece il nostro idioma vorrebbe difenderlo. Gli appassionati, i conoscitori, gli esperti. E i divulgatori. Farebbe comodo un Piero Angela della parola, per spiegare da dove venga e dove vada il nostro idioma. 9Fra quelli che ci provano, usando uno stile semplice, diretto, accessibile, c'è Manolo Trinci, appassionato linguista e autore di saggi (divulgativi, per l'appunto) il cui più recente lavoro è opportunamente intitolato Piuttosto che, ma anche no... (Sperling & Kupfer, pagg. 200, euro 18,90). La sua esposizione è calibrata appunto sugli utenti dei social, che lo seguono a decine di migliaia.

Trinci ha il pregio di arrivare là dove spesso i docenti delle scuola ufficiale non riescono. Spiega da dove è partito l'italiano. Le scritte sui muri non sono un'invenzione di adesso ma, come nel caso di quella della catacomba di Commodilla a Roma, esempi di linguaggio «da strada». L'italiano si è formato dal basso, ma l'80 per cento di quello che diciamo oggi è già contenuto nella Divina commedia di Dante, scritta in volgare. I significati possono via via allontanarsi dai significanti, ma l'etimologia alla lunga non perdona.

Senonché, è stupido essere rigidi. La lingua la fa chi la parla e ancorarsi alle regole di altri tempi è da passatisti. Si rischia di finire nello scompartimento dei cosiddetti grammar nazi, i nazisti della grammatica, che pensano di saperla più lunga degli altri perché applicano le regolette di abbecedari degli anni Quaranta. Ma un conto è stilare un atto notarile, altro scambiarsi messaggi su Whatsapp. Parlare con un'autorità pubblica è diverso che chiacchierare al bar.

Quello che conta, sembra dirci l'autore, è sapersi esprimere in maniera limpida, e dunque corretta. Evitando la sciatteria tipica di chi disprezza la forma semplicemente perché non ne conosce le regole. Nell'ignoranza di quelle regole sta la vera volgarità. Non esistono parolacce, ma solo parole dette o scritte al momento sbagliato.

E tuttavia il po' scritto senza l'apostrofo o con l'accento, il sì affermativo scritto senza accento, il dà (terza persona presente di dare) scritto anch'esso senza accento, e così via, sono tutti segni di poco rispetto delle convenzioni grammaticali, ma anche della persona che leggerà.

Come in molte cose, è il contesto a stabilire la differenza fra ciò che è opportuno e ciò che non lo è. E con questo si arriva alla poesia, la forma espressiva più libera e per questo la più pericolosa.

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