Sottosegretario Nicola Cosentino, che cosa fa? Lascia o raddoppia?
«Non lascio né il posto di sottosegretario né la candidatura alla Regione Campania. Devo tutto al presidente Berlusconi, come gli devono tutto coloro che ricoprono incarichi più o meno importanti».
Sicuro? Non si dimette?
«Sicurissimo. L’unico che può decidere sul mio futuro al governo e sulla Campania è solo il premier. Decide lui per la corsa alla presidenza della regione perché è stato lui a togliere quella vergogna dei rifiuti. Decide lui anche per il governo perché sono una sua espressione diretta. A me Silvio ha dato tutto, credo profondamente nell’amicizia e nella gratitudine che non è un sentimento della vigilia».
A buon intenditore...
«Faccia lei».
Ha sentito o visto Berlusconi oggi (ieri, ndr)
«L’ho sentito più volte. Mi ha detto di tenere duro: “Stai su col morale, guarda che mi stanno facendo a Palermo e Milano, andiamo avanti”. E io vado avanti».
Davvero non le ha chiesto di farsi da parte?
«No. Se me lo chiederà, lo farò».
Qualcuno non prenderà bene questa sua decisione.
«Facciamo a capirci. Io non sono uno che un giorno si è alzato e ha deciso di correre per la poltrona di governatore. Il Pdl campano, il più forte d’Italia, ha pensato che solo io potessi essere il candidato naturale. Perché è con me che si sono spazzati via 15 anni di malgoverno di sinistra. Con me per la prima volta governiamo tre province. L’intero centrodestra campano chiede a Berlusconi di iniziare la campagna elettorale con il sottoscritto. Che poi a Roma qualcuno possa essere contrariato, amen».
Che ne pensa dell’atteggiamento del presidente della Camera e dei cosiddetti «finiani», prima e dopo la richiesta d’arresto?
(Cosentino sorride). «Non vorrei che qualcuno, anche attraverso la mia vicenda giudiziaria, stesse guardando a un futuro dei singoli e delle appartenenze politiche. Un futuro senza Berlusconi che è ancora molto lontano dal prospettarsi. Sinceramente non mi sarei mai immaginato certe prese di posizione senza aver prima preso cognizione delle carte processuali. Non so se la mia colpa è quella di aver provato a disarcionare un sistema di potere in Campania che in qualche modo negli anni passati è stato da noi stessi alimentato. Fino a poco tempo fa esisteva un monopartitismo imperfetto dove governava sempre la stessa parte di sinistra, con “noi” che eravamo in qualche modo gli azionisti di minoranza. È stata dura ripartire nel 2005 quando perdemmo malamente con un candidato (Bocchino, ndr) che dopo tre mesi abbandonò la guida dell’opposizione dicendo: “Qui non c’è niente da fare, questo sistema non lo abbatteremo mai”. E invece, con Landolfi, con Cesaro e altri, piano piano l’abbiamo buttato giù il sistema».
Ha fatto cenno all’onorevole Bocchino. Qualcuno ieri sosteneva che dovrebbe essere l’ultimo a parlare contro di lei vista la vicenda Romeo nella quale è implicato e visto l’accenno diretto proveniente da un pentito che accusa entrambi.
«La differenza tra i santi e i farisei è che mentre i secondi sono indulgenti verso se stessi e rigorosi verso gli altri, i santi sono tutto il contrario. Tutti sanno che le accuse che mi stanno rivolgendo arrivano da un sistema di potere che ha bloccato la Campania per decenni. Io non credo assolutamente che Bocchino si sarebbe dovuto dimettere nel caso Romeo, credo che per farsi una ragione su chiunque quantomeno occorra una sentenza di primo grado. Fra le cose che mi hanno molto amareggiato una riguarda il suo giornale (di Bocchino, ndr) il “Roma” che ha seguito l’inchiesta molto da vicino, rivelando dettagli coperti dal segreto istruttorio che i miei avvocati nemmeno conoscevano. Il Roma sembrava il “Fatto” di Travaglio...».
Favorevole o contrario all’immunità?
«Con questa giustizia a orologeria l’immunità è sacrosanta».
Entriamo nei dettagli dell’inchiesta...
«Prima mi faccia fare una premessa: negli uffici giudiziari napoletani non c’è serenità, non si valutano le vicende guardando serenamente agli atti a disposizione. Ci sono condizionamenti causati da relazioni di potere e dal diabolico circo politico-mediatico. Guardate quello che hanno fatto con San Bertolaso: lo volevano addirittura arrestare. Il mio caso farà storia perché, di fronte alle evidenze delle contestazioni che mi arrivavano dai giornali, mi è stato scientificamente negato qualunque spazio minimo di difesa. Per mesi la Procura, responsabile della fuga di notizie dei verbali dei pentiti, ha fatto finta di niente. Ho presentato memorie, ho mandato gli avvocati a sollecitare audizioni, ogni mese, ogni settimana: niente. La Procura ha girato la faccia dall’altra parte. Il “metodo” che perseguono i Pm di Napoli cozza con la ricerca asettica della verità».
Pensa che se l’avessero sentita mesi fa, la richiesta d’arresto non sarebbe mai arrivata alla Camera?
«Penso? È sicuro. Quelle carte riportano propalazioni di pentiti facilissime da smentire. Avrei potuto ricostruire la mia storia politica e far capire ai magistrati che nessun boss mi poteva dare voti per essere eletto perché essendo fra i capolista ce la facevo in automatico. Avrei potuto dimostrare che se a Casal di Principe nel 1990, con il Psdi, prendevo 1800 voti, non potevo aver fatto il pieno di voti mafiosi nel 1996 (con Forza Italia) prendendo solo 16 voti in più rispetto alla precedente tornata elettorale. Quando stavo a sinistra non mi ha toccato nessuno, quando son passato a destra è iniziata la mia fine».
Qualcuno (vedi Saviano) s’interroga sulla capacità di Casal di principe, la sua città natale, patria del clan di Gomorra, di esprimere tre parlamentari.
«Questo è un pregiudizio antropologico e culturale, per cui chi nasce in un territorio sta necessariamente con le cosche. Ovviamente solo se sta a destra è mafioso. Con questo ragionamento dovrei pensare, e non lo penso, che sono camorristi pure Bassolino e la Jervolino perché hanno fatto il pieno dei voti in quartieri ad altissima densità criminale».
Chi è che l’ha delusa e non le ha espresso solidarietà?
«Ho ricevuto tantissime telefonate. Mi ha sorpreso che la Carfagna non sia riuscita a rintracciare il mio cellulare o il fisso della segreteria al ministero».
Cosa si aspetta dalla giunta per l’autorizzazione a procedere?
«Che leggano le carte, la mia difesa è là dentro. La misura cautelare si riferisce a fatti lontani nel tempo, tutti smentibili perché già smentiti».
Ha mai conosciuto i boss del clan dei casalesi?
«Sono nato a Casal di Principe, ho visto crescere intere generazioni, anche ragazzi che poi, molto più tardi, hanno preso strade lontanissime della mie. Io sono stato costretto ad andare via da quel paese perché rappresento la parte sana, quello che combatte Gomorra. Don Diana, il prete ucciso dai clan, stava con me».
E dei sei pentiti che dicono di lei qualunque nefandezza, ne ha conosciuto qualcuno?
«Solo un certo De Simone, quando da giovani giocavamo contro a pallone. Da allora mai più».
E Vassallo, che accusa lei e Bocchino?
«Italo ha ragione a dire che è un pazzo cocainomane. Mi chiedo come si facciano a fidare i Pm di uno che è stato pure ricoverato all’ospedale psichiatrico di Napoli».
Le contestano parentele scomode...
«E dai! Uno dei miei sette fratelli ha sposato una donna quando il fratello di questa, che poi verrà accusato di essere camorrista, aveva 14 anni. Ma che modo di fare è? Allora, mia moglie è la nipote di don Pasqualino, un prete molto conosciuto».
Domani ad «Anno Zero» si parlerà del suo caso. A prendere le sue difese dovrebbe esserci l’onorevole Granata...
(Cosentino allarga le braccia). «Essendo uno del gruppo ristretto dei finiani doc che ostacolano la legittima aspirazione del Pdl campano ad avere me come governatore, la cosa dovrebbe preoccuparmi. Granata passa per un garantista, speriamo bene».
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