La guerra, le sanzioni, il terremoto. Il dramma di un Paese distrutto

Dopo più di dieci anni di guerra, la Siria è un Paese distrutto. E a colpire sono soprattutto le sanzioni imposte dall'Occidente

La guerra, le sanzioni, il terremoto. Il dramma di un Paese distrutto

C'è stato un momento, durante la guerra in Siria, in cui non solo si seppellivano i morti, ma li si contava anche. Alì, morto sulle montagne al confine col Libano. Ibrahim, caduto nel deserto di Deir Ezzor. La piccola Reem fatta a pezzi da un colpo di mortaio esploso in un sobborgo di Damasco. Hanan, scomparsa a causa del C-4, l'esplosivo più amato dai terroristi siriani per compiere attentati. Era, quello di contare i morti, un atto penoso e pietoso allo stesso tempo. Si cercava di comprendere quanto costasse davvero quella guerra che, nessuno ancora lo sapeva, sarebbe durata più di dieci anni. Quanto costasse realmente: non in dollari, ma in termini di vite umane. Chi si doveva prendere la briga di contare è arrivato fino a mezzo milione, poi ha smesso. Tenere la conta dei caduti era troppo difficile. E, forse, troppo duro da accettare.

Quando, passeggiando per il suk di Damasco, ci si fermava a parlare con gli abitanti della città e si chiedeva loro un'opinione su Bashar al Assad, la risposta era sempre la stessa. E sempre agghiacciante per le orecchie di un occidentale, tanto abituato a dare valore alla propria pelle: "Se fosse stato come suo padre, Hafez, avrebbe risolto tutto in un mese e avremmo avuto molti meno morti". Il riferimento è all'insurrezione di Hama del 1982. In quell'occasione, i Fratelli musulmani si sollevarono contro il governo di Assad padre che, in tutta risposta, assediò e bombardò la città provocando almeno 40mila morti. Furono 27 giorni terribili scanditi da acciaio scaraventato contro gli edifici, spari e morti. "Se fosse stato come suo padre...".

Ma Assad non è come suo padre. L'agiografia siriana, tinta di propaganda, afferma che Bashar ha voluto studiare oftalmologia in quanto sarebbe l'unica disciplina medica che non prevede la vista del sangue. Non è così. Quel che è certo è che Assad non voleva fare il presidente e che, se avesse potuto, se ne sarebbe stato volentieri a Londra a vivere all'occidentale. Ma la vita è così. Un incidente in macchina di suo fratello Basil ha stravolto i suoi piani. Poi il richiamo in patria, repentino e accettato mal volentieri. Addio alla possibilità di godersi una vita serena e lontano da casa. "Una primavera in Siria", titolavano i giornali dell'epoca parlando di Bashar. Ironia della sorte, quella stessa espressione sarà poi usata per cercare di abbatterlo. E così si torna alla Siria della guerra. Di ieri e di oggi.

Oggi questo Paese è distrutto. Le ferite del conflitto sono troppe e troppo profonde. E il terremoto di oggi non ha fatto altro che peggiore la situazione. Quello che fa più male sono le sanzioni comminate dall'Occidente. Dovrebbero colpire il regime ma in realtà penalizzano solamente i poveri Cristi che non hanno né medicine né beni di prima necessità. Ed è il vero dramma della Siria.

Un Paese dove, fino a prima del conflitto, non esistevano le religioni. O meglio: esistevano ma non si chiedeva mai a che religione appartenesse Tizio e a quale appartenesse Caio. Si era tutti siriani. E oggi, forse, lo siamo un po' anche noi.

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