"Da Stalin ai terroristi islamici. Così è cambiato il modo di ritrarre il male"

Giacomo Papi ha scritto il volume “Accusare”, che racconta il Novecento attraverso foto segnaletiche: “Ogni società in qualche modo crea i suoi devianti”

Unsplash | Wikipedia
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C’è un libro che nel 2024 compie vent’anni, ma non sembra invecchiato di un giorno. Si tratta di “Accusare” di Giacomo Papi, che racconta la storia del Novecento attraverso 365 più una foto segnaletiche. Si tratta di un documento interessante per i vari aspetti trattati: non solo possono trovarlo tale gli appassionati di storia, ma anche quelli che vogliono scavare nelle vicende del loro divo preferito del cinema o della musica, fino a coloro che vogliono capire qualcosa di attualità attraverso i corsi e i ricorsi. “Oggi la foto segnaletica è il selfie che le persone pubblicano sui social”, spiega Papi a IlGiornale.

Papi, perché raccontare la storia attraverso le foto segnaletiche?

“Perché mi piace provare a raccontare la storia attraverso materiali che normalmente non lo fanno. Per esempio, uno dei miei ultimi libri ‘Italica’ racconta la storia del Novecento attraverso trenta racconti italiani. Non c’è un evento nel Novecento, grande o piccolo che fosse, che non sia rimasto impigliato nella fotografia segnaletica: le foto di polizia hanno schedato la nostra storia, sia le trasformazioni sociali che quelle di costume e quelle economiche. Dagli assassini di Lincoln a Stalin, fino ad Auschwitz e Martin Luther King: non c’è personaggio o fatto importante che non sia stato impresso in una foto segnaletica”.

Come nasce e si sviluppa il fenomeno?

“Le foto segnaletiche nascono 9 anni dopo l’invenzione di Daguerre: la prima è quella di una prostituta di Birmingham nel 1848. Si comprese subito che la fotografia potesse essere considerata un dispositivo per schedare e in qualche modo neutralizzare il male, il crimine, ciò che faceva paura. Poi il fenomeno, con la tecnica fotografica, ha assunto altre forme: dalle persone ritratte in costume da lavoro a una prostituta sadica con la frusta in mano”.

Fino alle foto di gruppo come gli studenti che protestavano nei college statunitensi alla fine degli anni ’60.

“Esatto, ma sono più rare. Secondo me, un altro esempio importante è quello dell’omosessuale italiano che a inizio Novecento viene fotografato con il sedere nudo: è importante perché ci dimostra che questa tecnica fotografica, che dovrebbe essere oggettiva, in realtà porta con sé una sorta di magia, ovvero l’idea di neutralizzare anche le singole parti del corpo ritenute per il contesto fonte del male. Come ‘catturare la preda’ con una foto segnaletica”.

Tra le immagini scelte ci sono persone condannate per reati che consideriamo tali anche oggi in una società democratica: assassini e stupratori per esempio. Ma ci sono anche persone che erano imprigionate da innocenti per i nostri canoni, come chi era nei lager e nei gulag. O addirittura considerate eroiche come Martin Luther King o Aldo Moro nella sua prigionia con le Brigate Rosse. Cosa ci dicono i loro volti?

“Ci dicono che nel momento in cui uno viene catturato non è che c'è una differenza fra innocente e colpevole, cioè ci dice che è l’essere umano a definire cosa sia cattivo volta dopo volta. Questo non significa che non esista il male e che sono tutti innocenti, ma significa che ogni civiltà in qualche modo crea i suoi devianti, ma ci sono devianze presenti in tutte le società, come l’omicidio. Tuttavia anche i crimini più ‘classici’ hanno subito i cambiamenti: fino a 60 anni fa c’era più tolleranza verso la pedofilia o, in generale, verso coloro che facevano del male ai bambini. Anche la definizione del male è storica, e a me quello che interessava non era un giudizio o un pregiudizio sul criminale ma la storia di come il criminale è stato guardato e messo in scena”.

In che senso?

“Pensiamo ai nazisti: inventarono una macchina automatica per le fotografie segnaletiche. Sono tutte uguali, una serie industriale, o meglio una vera e propria industrializzazione del male, che poi è quello che hanno fatto con i campi di sterminio”.

Quale criterio è stato usato per la scelta delle immagini?

“Non c’è un unico criterio, ma una somma di criteri: la bellezza della foto, la qualità della foto, l’importanza del fatto storico e talvolta la storia dietro la foto, come nel caso dell’immagine dell’avvelenatrice inviata a Lombroso (era un’adolescente russa ritratta tra due guardie, con i piedi che non toccano terra, ndr). I fatti storici importanti, alcuni personaggi, non possono poi essere tralasciati: Stalin, Gramsci e Mussolini dovevano esserci nella storia del Novecento”.

Siamo solo all’inizio del XXI secolo, ma se dovesse scegliere 3 foto segnaletiche per questo quasi quarto di secolo, quali sceglierebbe?

“Oggi la foto segnaletica è diventata un video segnaletico ed è diventata di massa grazie ai social: anche il selfie è una sorta di auto-segnaletica. La prima immagine che sceglierei è l’ultima che già appare nel libro, quella di Enzo Baldoni, dato che non si può non partire con l’uso maggiore della strategia segnaletica messa in scena dai terroristi islamici con i rapiti. Ci sono poi le auto-segnaletiche di Abu Grahib, con la soldatessa sorridente e il torturato a fianco, per cui c’è un ribaltamento di funzione e il catturatore si mette in scena: nel mio libro al contrario è presente la foto di un boia in una città tedesca, e il boia indossa un cappuccio per non farsi vedere. Alcune testate hanno pubblicato infine i selfie della ragazza di Traversetolo che ha ucciso i figli, talvolta oscurandone gli occhi: il terzo esempio contemporaneo di foto segnaletica è il selfie stesso”.

Avevate progettato il libro con il reporter Baldoni, a cui è dedicata la commovente ultima foto del libro. Ce ne vuole parlare?

“Non avevamo progettato questo libro ma un atlante della guerriglia: Enzo aveva intervistato guerriglieri in giro per il mondo e mi disse, dopo qualche giorno, di andare in Iraq.

Il suo comportamento lì è stato eroico e ciononostante è stato danneggiato. ‘Accusare’ è uscito nei mesi in cui è stato rapito e ucciso e quindi tenevo moltissimo a quella foto, mi è sembrato giusto concludere con la foto di Enzo”.

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