Ogni anno è la stessa storia. La stessa noia. Poco prima del 2 giugno, si sveglia qualcuno che chiede di non far sfilare i militari perché simbolo di una presunta violenza bruta. L'ultimo, in ordine di tempo, è Valerio Renzi che, su fanpage.it, scrive un articolo intitolato Sarebbe bello che il 2 giugno sfilasse la Repubblica della Pace. In esso, si elenca una lista irrealizzabile di sogni: si chiede di non far più marciare i militari armati ma "le associazioni di volontariato, i medici e gli insegnanti, i ragazzi e le ragazze di seconda generazione"; si chiede di far parlare "gli uomini e le donne accolti qua da noi in fuga dalle guerre" e di "rendere omaggio al Milite Ignoto ricordando anche chi ha scelto di disertare e disobbedire agli ordini, di scappare dalla mattanza delle trincee e alla violenza della guerra, oppure i crimini delle guerre coloniali italiane fatti di massacri, bombardamenti con armi chimiche e pulizia etnica". Infine si chiede: "Al posto di una festa delle armi e delle divise potrebbe diventare il 2 giugno il giorno in cui pensiamo a come fare a meno di armi e divise. (...) Una giornata di mobilitazione civica e civile al posto del passo dell'oca e di una retorica patriottarda che puzza di naftalina".
Quello che Renzi non sa è che dietro ai soldati non ci sono solamente armi e divise, ma molto di più. Lo aveva capito un pacifista vero, Mahatma Gandhi, il quale disse che, salvo la disposizione ad uccidere, accettava tutto della vita militare. Il sacrificio, la dedizione, la resistenza alla fatica e, soprattutto, la presenza continua e a tratti assillante della morte.
C'è poi un'altra cosa che Renzi dimentica: se l'Italia esiste, e se ogni anno festeggiamo il 2 giugno, è perché ci sono stati dei militari che hanno combattutto pure per lui, talvolta rimettendoci le penne. Il nostro Paese, infatti, fu unificato a suon di cannonate. Ma questo non bastò a fare l'Italia. Come è noto, per fare gli italiani ci volle un momento tragico come la Prima guerra mondiale (l'inutile strage di cui parlò Benedetto XV). Fu in quel momento, mentre gli austriaci avanzavano dopo la disfatta di Caporetto, che i nostri connazionali si fecero coraggio e, temendo per le proprie famiglie, fermarono gli avversari.
Perché, come diceva Chesterton, "un vero soldato non combatte perché ha davanti a sé qualcosa che odia. Combatte perché ha dietro di sé qualcosa che ama". Una lezione, quella del grande scrittore inglese, che però non tutti sono in grado di comprendere.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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