Bari, dentro la terapia intensiva: cosa succede ai pazienti

Si tratta della provincia più colpita della Puglia con 16.489 positivi al Covid-19. Il medico in corsia: "Forse faremmo meglio a spegnere la tv". L'infermiera durante la vestizione: "La gente non ha ancora capito"

Bari, dentro la terapia intensiva: cosa succede ai pazienti

Fuori il sole è alto, sembra una giornata di primavera, l'inverno tarda ad arrivare e non pensi al Covid, hai voglia di vivere e di farti accarezzare dal tepore. Ma lì, nella terapia intensiva del Policlino di Bari, il male lo incontri. Ha il volto dei pazienti sedati e intubati. A separarci solo un vetro. Loro non ci vedono, hanno gli occhi chiusi e qualcuno è a pancia in giù per agevolare la respirazione. Tornano alla mente quelle vetrate da cui si possono vedere in ospedale i neonati nelle culle, ma qui la vita ha un peso diverso, una dimensione sospesa. Cerchi di acchiapparla come puoi contro questo "essere microscopico" come chiama profeticamente il virus lo scrittore russo Fedor Dostoevskij in "Delitto e castigo".

A costeggiare la terapia intensiva un lungo corridoio, da un lato le sedie in quella che probabilmente prima era una sala d'attesa, dall'altro i ventilatori polmonari pronti per essere usati. In fondo, su un tavolo, dei fiori finti, le immagini di San Pio, Gesù, la Madonna, i rosari, i Santi medici Cosimo e Damiano a proteggere, chissà, anche l'ultimo degli atei finito miseramente nella terapia intensiva. Accanto alla scrivania un lettino con ancora il lenzuolo monouso sgualcito ed una sedia accanto, "chi sarà stato l'ultimo contagiato ad usarlo?". Nel frattempo la luce del giorno entra dai finestroni con il vetro opaco, ma il frastuono della città rimane fuori. Dentro un silenzio assordante, l'aria è ferma come quei pazienti nudi oltre il vetro. Nella sala della terapia intensiva c'è un megaschermo appeso alla parete e in onda una trasmissione di quelle dove i personaggi famosi discutono animatamente, il solito talk show, perché lì fuori la vita continua, ma qui è ferma, appesa come in un limbo. "Forse faremmo meglio a spegnerla quella tv, si parla solo di Covid e morte" dice con un sorriso amaro il medico di turno, la dottoressa Ilaria Donadio.

Oltre quel vetro a lavorare come tante api operaie gli operatori sanitari. Si confrontano, osservano i malati, prendono degli appunti, intubano. Ma come fanno a capirsi chiusi in quelle tute? Di loro riesci a scorgere a stento lo sguardo e nient'altro "perché neanche un lembo di pelle deve rimanere scoperto" come specifica Marilena Scardicchio, una infermiera che ci spiega passo dopo passo la sua vestizione prima di oltrepassare la soglia della terapia intensiva. Ha gli occhi chiari a mandorla e sul suo giovane viso i solchi della mascherina "quella che sopportiamo meno, ma che ci salva la vita". Marilena non ha più paura del virus, "è diventata quasi un'abitudine. Adesso c'è più la stanchezza psicologica, è da agosto che siamo tornati a lavorare con i pazienti Covid, a bardarci, a fare fatica a respirare quando siamo dentro, a dover formare il personale nuovo". "Tre anni di università non servono a niente" fa eco un altro infermiere mentre si prepara a oltrepassare quella porta insieme a Marilena. Anche lui è giovane e divide uno specchio con la collega dove si guardano attentamente per non lasciare scoperto nulla di loro durante la vestizione prima di entrare in reparto.

"Mi sono accorta che la gente ancora non ci crede" afferma la Scardicchio. Il suo tono è deciso, arrabbiato. "Ho diversi amici che ancora tentennano, gente che non rispetta ancora le indicazioni, ma finché non tocchi con mano non te ne rendi conto. Noi vediamo arrivare i pazienti in lacrime perché hanno paura e poi vediamo man mano le loro condizioni peggiorare, perché il loro respiro diventa sempre più affannoso. Li vediamo arrivare svegli e poi se è il caso li sediamo e li intubiamo. Finché non vivi tutto questo non puoi capire.". Le sue parole e il suo sguardo, arrabbiato e disilluso, farebbero venire la pelle d'oca anche al miglior negazionista. Indossa la visiera, un saluto veloce e indifferente e va dai suoi pazienti.

In tutto i posti delle due terapie intensive nel Policlinico di piazza Giulio Cesare a Bari sono trentacinque, solo uno è libero per un paziente in arrivo da Bisceglie ( Comune della provincia Bat). Gli infermieri gli preparano il letto: un lenzuolo monouso, un cuscino e al centro, aperto, un panno assorbente.

Chiediamo di vedere la terapia semi-intensiva (lì i posti sono venti e tutti occupati), ma ci

dicono che non è possibile, "i pazienti fanno fatica a parlare è meglio di no". Chiudono la porta e andiamo via. Fuori c'è il sole, il tepore ci accarezza la pelle e torna, più forte di prima, la voglia di vivere.

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