Un lungo nulla. Solo questo dopo le notizie dei primi giorni. Notizie oscurate – a ragione – dal contesto internazionale. Quasi una beffa del destino, dopo 29 anni di attesa. Ma forse la mancanza di clamore mediatico intorno alla vicenda che vede indagata per strage Rosa Belotti, la presunta “biondina” delle stragi del 1993, è un bene. In primis per gli inquirenti, in secundis per la Belotti stessa, che dopo aver subito il “trappolone” giornalistico nei primissimi giorni di marzo, si è chiusa – e con lei il suo avvocato – in un prudente silenzio.
Nonostante questo, c’è chi continua a scavare nel torbido di quegli anni. Noi compresi. E talvolta gli spunti giungono inaspettati, quasi a chiedere di essere approfonditi. A quali siano questi spunti ci arriveremo tra poco, prima occorre condividere una riflessione.
Sin dal momento in cui è iniziata a circolare la notizia della perquisizione in casa della Belotti (perquisizione in cui le sono state sequestrate delle foto, poi comparate con quella ritrovata ad Alcamo nel 1993, in cui l’indagata si è riconosciuta senza però saper spiegare come quella foto sia finita lì), su internet sono iniziati a circolare i vari identikit che risalgono all’epoca delle indagini sulle stragi di via dei Georgofili, a Firenze, e di via Palestro, Milano. In entrambi i casi – come per la bomba in via Fauro, a Roma (bomba che doveva uccidere il giornalista Maurizio Costanzo), i testimoni parlarono della presenza di almeno una donna. Bionda, per l’appunto.
Gli identikit che siamo riusciti a individuare sono almeno quattro. Tre presentano una donna dal viso allungato, di forma triangolare, bocca piccola e carnosa, naso regolare. Cambiano i capelli, lunghi e lisci in un identikit, lunghi e ricci e a caschetto negli altri due. C’è poi il quarto fotofit che mostra una donna somigliante per tratti somatici, ma con i capelli corti e scuri.
La considerazione che facciamo nasce proprio da qui: perché si parla da sempre di una “biondina” quando non solo esiste un fotofit che mostra una donna dai capelli scuri, ma quando anche la donna recentemente indagata, Rosa Belotti, è tutt’altro che bionda? Certo, esistono le parrucche. E a pensarci bene effettivamente può aver senso che una donna impiegata per un attentato di così grande portata cerchi in qualche modo di dissimulare il proprio aspetto. Ma resta sempre la stessa domanda: perché parlare di una “biondina” per tanti anni? Può apparire una domanda di poco conto, ma ci sono vicende in cui i dettagli possono fare la differenza ed è da questi che noi partiamo. Se poi, come anticipato poche righe fa, giungono ulteriori spunti inaspettati, certi dettagli – ai nostri occhi – diventano ancora più importanti. Magari non per dare risposte, ma almeno per porci le giuste domande.
Giuseppe Ferrara è morto nel 2016. Era un regista e sceneggiatore. Tra i suoi film Il sasso in bocca, del 1969, Il caso Moro, del 1986, Giovanni Falcone, del 1993, e I banchieri di Dio, del 2002, solo per citarne alcuni. Un interesse manifesto per i lati oscuri della nostra Repubblica, sui quali Ferrara si documentava in modo scrupoloso, studiando gli atti dei processi, cercando i protagonisti da intervistare, raccogliendo gli articoli di stampa che lo avrebbero in seguito aiutato a ricostruire i contesti, le atmosfere, le ambiguità mostrate nei suoi film.
Grazie a una serie di circostanze fortuite, abbiamo avuto accesso al suo sterminato archivio. Tra i numerosi faldoni catalogati, ce n’è uno che non è sfuggito alla nostra attenzione. Sul frontespizio si legge “Stragi ‘93”.
Al suo interno numerosi ritagli di giornale, a partire dal 1993 fino ai primi anni duemila. È stato sfogliando tra queste carte che tra le mani ci è capitato qualcosa di interessante. Un numero del 17 giugno 1994 del settimanale Visto. Numero sulla cui copertina campeggia proprio l’identikit più famoso della “biondina” delle stragi (quello in cui la donna porta i capelli lunghi e lisci). Sotto la dicitura “esclusivo” un titolo, appunto, da prima pagina: Clamorose rivelazioni di un pentito sulle stragi di Firenze e Milano di un anno fa. “La bionda delle bombe era la mia amante”.
In un lungo articolo a firma di Massimo Laganà, si riporta l’intervista al pentito del titolo: Pietro Gioffrè, ‘ndranghetista, che un anno dopo, senza essere affidato a un programma di protezione, verrà freddato con due colpi di pistola alla testa mentre si trovava in una spiaggia calabrese. Oltre che in questo articolo, Gioffrè comparirà anche nel corso di una puntata del Tg2 nel luglio 1994, sostanzialmente ribadendo quanto scritto nell’articolo: sua moglie, madre di quattro figli, l’ha abbandonato per sostituirlo con un altro uomo, un latitante della stessa organizzazione. In questi due exploit giornalistici, il pentito sembra voler richiamare all’ordine la compagna fedifraga, ma pare volersi anche togliere parecchi sassolini dalle scarpe. Al giornalista rivela infatti che la “bionda” delle stragi che un anno prima hanno insanguinato il continente esiste davvero “anche se è ossigenata”. Secondo Gioffrè la donna “si fa chiamare Rosy, ma il suo vero nome è Rosalba”.
Leggendo l’articolo, non si può restare interdetti da alcune incongruenze che restano insolute. Per esempio: se prima il pentito parla di quattro figli, qualche riga dopo dice “Rosalba mi ha dato anche un figlio”. Quanti sono questi figli? Quattro, uno? Non si capisce. Ma la cosa più inspiegabile è un’altra: nel corso dell’intervista Gioffrè – che racconta di aver insegnato alla moglie a fabbricare lo stesso tipo di detonatore utilizzato per le bombe di via Palestro e via dei Georgofili (su come poi un pentito fosse in grado di conoscere certi dettagli ci riserviamo di provare a capirlo in seguito, perché per ora non ci siamo riusciti) – si riferisce alla donna prima chiamandola Rosalba, poi Caterina.
L’articolo è ovviamente corredato da foto. Una, a pagina piena, ritrae Rosalba/Caterina in primo piano, con indosso un pullover con una fantasia di foglie autunnali; un’altra ritrae la stessa donna sorridente accanto a Gioffrè. In entrambi i casi, si tratta di una donna dalle folte sopracciglia nere, capelli scuri tagliati corti e raccolti sulla nuca. Nulla di più lontano dalla presunta “biondina”. La didascalia a corredo delle foto – dettaglio che ingenera ulteriore confusione – si riferisce alla donna con nome e cognome. Il nome, anche in questo caso, non è Rosalba, ma Caterina.
Sorvolando sulla coincidenza di avere oggi una donna indagata che si chiama Rosa Belotti, legata attraverso suo marito ad ambienti della criminalità campana, e di averne una tirata in ballo nel 1994 di nome (apparentemente) Rosalba, legata ad ambienti della criminalità calabrese, ciò che resta è l’evidenza di un fatto: se di “biondina” si è sempre parlato, le donne in questa vicenda, colpevoli o innocenti non siamo noi a poterlo dire, sono l’esatto opposto.
E in conclusione sorge l’ultima domanda: nel 1994, a seguito delle
dichiarazioni del pentito Gioffrè e della pubblicazione di quelle foto sul settimanale Visto, gli inquirenti hanno approfondito quella che poteva essere una pista interessante? Se si, cosa è emerso? Se no, per quale motivo?- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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