I grillini che hanno invocato a lungo le manette per qualsiasi amministratore che si fosse sporcato le mani ora fanno i conti con le ragioni da essi stessi sostenute invocando le manette. È il destino di chiunque finga di non sapere che fare politica vuol dire spesso, realisticamente, sporcarsi le mani.
L'invocazione delle manette per l'amministratore che se le sia sporcate è puro moralismo fine a se stesso, è il rifiuto della politica, per definizione, come «cosa sporca». Se i grillini non fossero andati al potere a Livorno, ora non farebbero i conti con se stessi e il proprio facile moralismo. C'è da sperare che la lezione faccia loro bene e che imparino che far politica vuol dire, prima o poi, conquistare posizioni di potere pubblico che comportano sempre l'assunzione di responsabilità. E con la magistratura che ci ritroviamo spesso basta ricoprire quelle posizioni per rischiare le manette...
Fare politica vuol dire sporcarsi, a volte, le mani, semplicemente perché la politica è l'arte del compromesso, è cercare di governare per il meglio, evitando, se necessario, qualche legge o regolamento di troppo. Amministrare la cosa pubblica significa essere in grado di far fronte alla domanda di ben governare nell'interesse generale. L'amministrazione non è ossequio costante e inderogabile a leggi e a regolamenti. Non sto facendo l'elogio del mandato imperativo, ma per amministrare occorre, a volte, dover ignorare burocrazie che imporrebbero troppi vincoli. L'eccesso di legislazione regolamenti, divieti, permessi, licenze produce danni e una certa magistratura, fortemente politicizzata e animata da una buona dose di moralismo, ha finito con invadere il campo dove si fa politica, incidendo sul corretto funzionamento del sistema. Le toghe che fingono di ignorare che politica vuol dire anche compromesso sostituiscono il realismo con un malinteso legalismo che altro non è se non il desiderio di chi non è stato eletto di far politica contro chi la fa.
La magistratura che usa le manette molto volentieri dovrebbe capire che, comportandosi come si comporta troppo spesso, finisce col far saltare la logica che regge ogni ordinamento democratico-liberale e con l'imporre alla politica la propria volontà e il proprio moralismo, che non sono la legge, bensì la propria discrezione. Così, però, il nostro sistema politico non funziona perché la distinzione e la separazione delle funzioni che caratterizza lo Stato moderno non vengono rispettate da tutti: chi governa è tenuto a rispettare le leggi e i regolamenti che disciplinano anche l'attività politica, ma la magistratura, non essendo stata eletta, è tenuta, da parte sua, a rispettare le regole della politica, dove vige il principio che governa chi ha avuto anche solo un voto in più di chi è stato sconfitto alle elezioni e che la sovranità appartiene al popolo che la esercita alle urne. Se non si tiene bene a mente questo elementare principio che non equivale a una sorta di permesso di violare le leggi e i regolamenti- il risultato è la continua invasione di campo della politica da parte di un altro organo dello Stato. Chi governa deve essere soggetto alle norme, ma non lasciato alla totale mercé di chi leggi e regolamenti deve applicare.
Non è per caso che io ho insistito a lungo sul fatto che l'eccesso di legislazione è una delle caratteristiche peculiari degli ordinamenti totalitari, dove tutto è proibito tranne ciò che è espressamente ammesso. In una democrazia liberale, al contrario, molto è ammesso anche se non esplicitamente previsto dalla legge. Vige, in una democrazia liberale, un qualche margine di discrezionalità che consente a chi amministra la cosa pubblica, se necessario, di sporcasi le mani senza doverne sempre rispondere e pagarne le conseguenze legali. La politica non è, per definizione come pensano i manettari una «cosa sporca», bensì il luogo del compromesso in nome della governabilità. E il compromesso, quando è compiuto da chi è stato eletto, fa parte del gioco della politica. Perciò, l'invasione della politica da parte di una certa magistratura non è il trionfo della pulizia e della trasparenza, bensì una forzatura di una delle funzioni pubbliche su di un'altra funzione, quella di chi fa politica perché è stato eletto.
La quale ubbidisce a leggi sue proprie che poco o nulla hanno a che fare con un'idea distorta di moralità che è la negazione della politica stessa. Forse, una ripassatina a Machiavelli non farebbe male a certi nostri magistrati.piero.ostellino@il gionale.it
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