Il centro esiste solo se i Democratici ne stanno lontani

Il "centro" forse esiste, ma sono quasi trent'anni che nessuno riesce a trovarlo. Il "centro" come casa politica di chi si sente alternativo al centrodestra e al centrosinistra. Il centro del centro

Il centro esiste solo se i Democratici ne stanno lontani

Il «centro» forse esiste, ma sono quasi trent'anni che nessuno riesce a trovarlo. Il «centro» come casa politica di chi si sente alternativo al centrodestra e al centrosinistra. Il centro del centro. Il centro che ogni volta cambia aggettivo: moderato, liberale, riformista, post-democristiano o tutte queste cose insieme. C'è chi lo ha inseguito tutta una vita, ma appena provava ad afferrarlo si ritrovava in mano poche briciole. Pochi voti e senza peso. È la terra dei piccoli troppo leggeri per aggregarsi. Non c'è gravità. Non si attraggono. Il centro finora assomiglia a una bugia.

Carlo Calenda non ha alcuna intenzione di lasciarsi scoraggiare. È convinto che questo sia il tempo giusto. È la sua scommessa e la prima pietra vuole metterla a Roma, candidandosi come sindaco. È un segno e poi da lì, o in parallelo, si può immaginare una federazione. Lo chiama fronte repubblicano. È una sorta di barriera. Non è importante infatti chi deve stare dentro, ma chi è fuori. È un altro caso di anti-identità. Il frangiflutti è contro Lega, Fratelli d'Italia e Cinque Stelle. Li definisce sovranisti e populisti. Tutti gli altri sono benvenuti: renziani, pezzi sparsi di Forza Italia, radicali, liberali, la Bonino, totiani, Sala, Gori e gli altri sindaci Dem. Alleati con chi? Calenda per abitudine guarda a sinistra e cita il Pd. È un vecchio errore. Pannella, per esempio, lo sapeva bene. Se sogni di fare il battitore libero è meglio stare lontani dalla «grande chiesa della sinistra». Non ti riconosce. Il Pd è disposto a dialogare e allearsi con i Cinque Stelle in salsa Conte, ma Azione, come Calenda ha battezzato il suo partito, è indigesto. Non solo non crede nella federazione repubblicana, ma la considera velleitaria. Qualcosa che si liquida scrollandosi le spalle. C'è chi, come Toti, che lo invita a guardare altrove. Sarebbe più facile cercare sponde a destra, ma è già stato segnato il confine. Mai con Salvini. Mai con Meloni. E loro, d'altra parte, non potrebbero stare con Sala e Gori. Quindi il «centro» deve scavare al centro. Magari è nella profondità e non nel raggio la soluzione del mistero. È dire «chi siamo» e non «chi non siamo». È un cambio di orizzonte e per realizzarlo non basta candidarsi a Roma. Tutti quelli che si sono smarriti alla ricerca del centro si sono preoccupati sempre della scatola. È un'illusione. È l'abitudine a pensare che se metti sul tavolo un contenitore poi qualcosa, per magia, ci finisce dentro. Sarebbe invece più saggio immaginare le idee, i contenuti, poi una scatola in qualche modo si trova. Non lavori per escludere, ma per aggregare. Cosa sogna Calenda?

Il suo ragionamento ha una prospettiva. È l'impatto che Draghi sta avendo sulla politica italiana. Cosa resterà di questa esperienza? Non è una domanda banale. Il capo del governo sta mostrando una sua identità. Non vuole il cappello di questo o di quello. Si è capito subito, per esempio, che il Pd non è riuscito a fare con Draghi quello che ha fatto con Conte. Letta pensava di lasciare un marchio e invece è stato percepito come uno che si agitava senza motivi su questioni magari importanti, ma non urgenti. Draghi non ha ambizioni elettorali. Non cerca posti al sole. Non deve costruirsi una carriera. Non farà l'errore di Mario Monti. Non ha un partito in cantiere. La sua preoccupazione è non perdere la faccia. All'Europa ha detto: «Garantisco io». È quello che sta cercando di fare. Non è cosa da poco.

Draghi fin dall'inizio ha mostrato la sua carta d'identità. Ci sono scritte due parole: atlantico e europeo. Non è solo una appartenenza geopolitica. È un sistema di idee e di valori. Se questa è la base poi c'è la necessità di non rendere l'Italia marginale. Non farla diventare una provincia. Non rassegnarsi a scontare una crisi che dura da troppo, troppo, tempo. Draghi considera il tempo che verrà dopo la pandemia una grande occasione. È su questo che verrà valutato il suo lavoro. La sua eredità culturale e politica quindi si raccoglie intorno a un concetto: riformismo. Draghi, per raggiungere il suo obiettivo, dovrà passare alla storia come l'uomo delle riforme. Non sarà affatto facile realizzarle, ma non ci sono alternative. Se Draghi non sarà riformista allora non sarà. Non lascerà nulla. L'unica speranza del centro allora è qui.

È dare un futuro alle riforme che Draghi ha messo in cantiere. Prima però bisogna vederle e poi forse si potrà parlare di «draghismo». Il «partito repubblicano» che sogna Calenda è solo l'invito a una festa di cui non si conosce la musica e la data.

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