Silvia Romano, la cooperante milanese rapita in Africa nel novembre del 2018 e rilasciata in Somalia la scorsa settimana, in Kenya era andata come volontaria per "Africa Milele", un'associazione italiana che si occupa di infanzia e che, nelle ultime ore, è stata accusata (anche dai familiari della giovane) di averla mandata "allo sbaraglio". Come riportato dal Corriere della sera, la onlus per cui prestava servizio la giovane milanese è stata fondata da Lilian Sora, 42enne di Falcineto Castracane, località di Fano, in provincia di Pesaro Urbino, che in molti definiscono come una donna spontanea e genuina, che ha messo tutta se stessa nel progetto africano e che si è sempre data da fare.
Dalle Marche al Kenya
Soprannominata dalla comunità italiana locale "la Sora Lella", la fondatrice di "Africa Milele" sarebbe arrivata in Kenya per una vacanza a fine degli anni 2000, con l'ex marito italiano. Probabilmente attirata da una realtà completamente nuova e diversa dalla sua, Sora in quel luogo era voluta rimanere, avviando il progetto di un orfanotrofio, l'educazione dei piccoli, la raccolta di cibo e di medicinali, il sostegno a distanza e persino le bomboniere solidali. Lì aveva sposatao Joseph, un masai, a cui aveva deciso di affidare la missione a Chakama. "Lilian ha aiutato decine di bambini. Una volta ne ho incontrato uno in Italia, che aveva portato per curarsi: felice, ben accudito, amato", ha spiegato un ex volontaria romana (rimasta anonomia) al quotidiano.
La famiglia contro Sora
Dopo il sequestro di Silvia, la fondatrice della onlus era stata ascoltata più volte dalle autorità e come riscontrato dai carabinieri del Ros in questi mesi, la giovane cooperante si sarebbe trovata in Kenya senza nemmeno un'assicurazione per malattia o infortunio. Sora, per giustificare questa lacuna, avrebbe spiegato che "non c'era ancora stato il tempo materiale per fare la polizza", ma la famiglia Romano ha chiesto alla Farnesina di agire contro questa la onlus, colpevole di avere mandato "allo sbaraglio" la figlia, lasciandola da sola. Sora, che avrebbe tentato in tutti i modi di parlare con i Romano in questo periodo, si sarebbe difesa sollevando le proprie responsabilità dalle sorti di Silvia, sostenendo che la cooperante era rimasta in compagnia del marito e di un altro masai fino al giorno prima del sequestro e che soltanto un contrattempo avrebbe creato un "buco organizzativo", in cui si erano però infilati i rapitori.
Le conferme sulla sicurezza
Intervenuta su Repubblica, Sora ha confermato in queste ore di non aver mai pensato "all'ipotesi di un rapimento o di un assalto violento" e ha aggiunto: "Se conosceste quel villaggio e la sua gente capireste. Quando è stata rapita Silvia, in sede a Chakama erano in servizio ben due guardiani". La fondatrice della onlus ha anche spiegato come la 25enne del quartiere Casoretto fosse entrata in contatto con loro: "Voleva fare un periodo in Kenya, dopo la lairea, e aveva scelto due onlus. Prima è andata sulla costa, a Liconi, con l'altra. Quella è zona rossa, non Chakama. Poi ci siamo date appuntamento a Malindi. Lei era già ambientata, me la ricordo con le treccine. Ma non sapeva che l'aspettava un'Africa diversa, la vera Africa, un'Africa ruale non ancora rovinata dal turismo". E sulla sicurezza continua: "Con i volontari dorme sempre il guardiano masai".
Tutti i rischi
Tuttavia, non sarebbe stata soltanto la famiglia Romano a nutrire qualche perplessità nella gestione del lavoro dell'organizzazione marchigiana, ma anche chi conosceva la onlus perché da tempo in Kenya. Percepite come delle sconosciute, un po' improvvisate e poco inclini all'ascolto dei consigli e alla prudenza, le cooperanti della onlus si sarebbero esposte in diverse circostanze a situazioni rischiose. Ne è convinto Fabrizio Popi, un ex discografico che collaborava con Renato Zero e che a Chakama, la città dove è stata rapita Silvia, aveva aperto una fattoria solidale prima di discutere proprio con Sora e di andarsene. "Io, per esempio, smisi nel 2013 di accettare volontari", aveva detto lui poco il sequestro della giovane, attribuendo la responsabilità dell'incolumità di questi ragazzi proprio a chi gestisce le associazioni.
"Volontari troppo ingenui"
Popi definiva i volontari "pericolosi per la loro leggerezza, per la loro ingenuità, per la mancanza assoluta di rispetto delle regole del Paese che li ospita, per l'esagerato amore nei confronti dei bambini, solo perché sono scalzi, sporchi, affamati e fanno tanta tenerezza" e aggiungeva: "Pensano a una bella vacanza, pensano alla novità, pensano alle foto, ai milioni di video che poi di sera postano
sui social. Pensano di essere immuni da tutto e quasi ogni giorno, senza saperlo, rischiano grosso. Sono pericolosi e controproducenti, anche se apprezzo il loro grande impegno, che riconosco spontaneo e genuino".
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