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Così l'industria del calcio può saltare

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Secondo i consulenti americani di AT Kearney, le società calcistiche sono come navi che trasportano i soldi del loro business, il calcio, nelle tasche dei calciatori. A loro, le società, quando va bene non resta nulla. Ma più spesso ci perdono un bel po' di quattrini. L'immagine è perfetta per la Serie A del calcio italiano che, per fatturato prodotto, valore d'impresa, clienti interessati e lavoratori mobilitati è una delle principali industrie del Paese. Si calcola tra le prime 10 per ricavi. Thomson Reuters ha calcolato, nel 2017, che per investimenti effettuati (per lo più la campagna acquisti dei club) la Serie A era la terza industria italiana, dietro solo al governo e al settore finanziario.

Di queste dimensioni, e dell'importanza del calcio per il Paese, si sente parlare spesso dagli «addetti ai lavori». Come se si discutesse di settori che danno lavoro a decine di migliaia di persone quali per esempio la meccanica o la farmaceutica. Mentre si parla molto poco di quanto la Serie A sia in realtà un'impresa pressoché fallimentare. Con i bilanci perennemente in rosso. Tranne, naturalmente, i conti in banca di manager e calciatori. Ecco perché stiamo assistendo, in queste ore, all'incredibile balletto del calendario di Serie A. Ci voleva il coronavirus per smascherare il calcio italiano, uno show ostaggio di quei pochi che si intascano l'intero bottino del sistema. Un'industria tanto importante quanto fragile, senza capitali, a corto di fatturato e priva di un modello di business: in quale altro settore economico si lavora e si pagano i propri dipendenti per avere a fine anno perdite certe? Nessuno, ovviamente, si può permettere le partite a porte chiuse: solo tra Juventus-Inter e Milan-Genoa sono in gioco oltre 3-4 milioni di euro di minori ricavi. Non parliamo poi di fermare il campionato: per qualcuno vorrebbe dire portare i libri in tribunale. Meglio aspettare, spostare, tergiversare. E falsare ampiamente l'intera stagione sportiva. Con buona pace degli unici che pagano, tifosi, spettatori e, soprattutto, abbonati. Il punto è che il calcio italiano è l'unico dei grandi business del Paese dove a perderci sono quasi tutti: si distinguono un nugolo di giocatori multimilionari (una quarantina di calciatori e qualche allenatore), il resto dei circa 500 atleti tesserati della Serie A, i leggendari procuratori e i manager. Dopodiché i conti sono tutti in rosso: lo sono per gli appassionati, che ogni anno pagano più care le partite sia alla tv, sia in quei pochi stadi che non restano deserti; lo sono per le pay tv, che non riescono ad avere abbastanza abbonati per fare utili; e lo sono soprattutto per le società di calcio, che non hanno ricavi sufficienti per sostenere i costi di cui sopra. Basta pensare che la più importante squadra italiana, la Juventus, ottacampione consecutivo della Serie A, ha appena chiuso il bilancio di metà anno con 50 milioni di perdite, ricavi in calo, costi in crescita, oltre 326 milioni di debiti e una previsione di ulteriori perdite almeno fino al 2020-21. Di qui il terrore di dovere rinunciare all'incasso di Juventus-Inter all'Allianz Stadium o a qualcosa di ancora peggiore. E la Juventus è la società più importante del nostro calcio (i conti semestrali della Roma, freschissimi, sono di 87 milioni di perdite, con 264 milioni di debiti). Nella stagione 2017-18, per la società di consulenza britannica Pwc, la perdita aggregata delle 20 società della Serie A è stata di quasi 100 milioni, su 3,1 miliardi di ricavi. Per Il Sole 24 Ore, che ha studiato i bilanci 2018-2019, a parte Atalanta e Napoli, con rispettivamente 24 milioni e 29 milioni di utile, le altre società di alta classifica hanno chiuso tutte in rosso: 146 milioni il Milan, 48,4 l'Inter, 39,9 la Juventus, 24,3 la Roma, 13,2 la Lazio.

L'industria del calcio italiano non è attrezzata per una tempesta come il coronavirus.

Non può perdere un euro di ricavi, non può rimborsare i suoi clienti, non può rischiare danni peggiori. L'industria del calcio non ha la forza e la serietà di altri settori del Paese a cui viene paragonata perché segue logiche diverse. Spesso imperscrutabili. Che almeno lo si dica chiaramente, con meno ipocrisia.

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