I dubbi sul delitto di Garlasco: ecco tutto quello che non torna

Il 13 agosto del 2007 veniva rinvenuto il cadavere di Chiara Poggi. Sin da subito sotto la lente degli investigatori finisce Alberto Stasi, oggi in carcere, condannato a 16 anni. Caso chiuso, dunque. Ma ne siamo proprio sicuri?

I dubbi sul delitto di Garlasco: ecco tutto quello che non torna

Inizia oggi un'inchiesta in sette puntate sul delitto di Garlasco. Alberto Stasi è stato condannato in maniera definitiva per l'omicidio della sua fidanzata. Il nostro giornalista d'inchiesta, Gianluca Zanella, ripercorre, carte alla mano, le indagini e il processo mettendo in evidenza luci e ombre di uno dei primi casi mediatici di omicidio in Italia.

Il 13 agosto del 2007 Chiara Poggi veniva trovata uccisa nella sua abitazione a Garlasco, in provincia di Pavia. Il cranio letteralmente sfondato da un corpo contundente metallico, sicuramente pesante, mai rinvenuto; il volto sfregiato da uno strumento che in fase di autopsia viene identificato come compatibile con un paio di forbici da sarto utilizzate come un pugnale, ma che in una perizia successiva (nel corso dell’Appello bis) diventa un martello da carpentiere. Ad ogni modo, non c’è certezza, se non che ci sia stato un accanimento brutale, inspiegabile.

Alberto Stasi, il suo fidanzato, è da subito l’unico indiziato, poi imputato per l’omicidio. Arrestato il 24 settembre del 2007, viene subito dopo scarcerato. Rinviato a giudizio, il 17 dicembre 2009 viene assolto in primo grado, poi nuovamente in appello il 6 dicembre 2011. Due anni dopo – il 13 aprile 2013 – la Corte di Cassazione annulla la sentenza d’appello e rinvia ad un nuovo appello.

Il 17 dicembre 2014, la Corte d’Assise d’Appello condanna Alberto Stasi a 16 anni di reclusione per l’omicidio volontario della sua fidanzata. L’anno dopo, il 12 dicembre, la Corte di Cassazione conferma la condanna. Stasi si presenta spontaneamente la mattina stessa della lettura della sentenza presso il carcere di Bollate, dove da allora è rinchiuso.

A distanza di oltre sei anni dalla condanna e di oltre 15 dall’uccisione di una ragazza di 26 anni, ha ancora senso parlare dell’omicidio di Garlasco? Dopotutto, giustizia è stata fatta e un assassino sta scontando la propria pena. Ma ne siamo davvero sicuri?

Stasi, il mostro perfetto

In un’intervista rilasciata a Le Iene, Alberto Stasi professa di fronte alla telecamera la sua innocenza e lo fa senza peli sulla lingua, utilizzando parole forti e adombrando il sospetto che la sua condanna possa aver facilitato la carriera di qualcuno. A noi quello che ha da dire Stasi interessa relativamente. Cosa mai potrà sostenere un carcerato, se non che si è trattato di un terribile equivoco?

Abbiamo tuttavia deciso – a distanza di tanto tempo e dopo innumerevoli articoli di stampa, non sempre equilibrati nelle loro analisi – di affrontare con serietà e rigore questo caso perché, nonostante tutto, qualcosa non ci ha mai convinti fino in fondo. Abbiamo studiato gli atti dei processi, migliaia e migliaia di pagine, soprattutto documenti degli organi inquirenti e le perizie disposte d’ufficio. Questo per non lasciarci influenzare da tesi necessariamente partigiane, ma per analizzare i fatti. Le evidenze nude e crude. E ci siamo accorti fondamentalmente di due cose. Una ve la sveliamo subito: i fatti, per come sono stati narrati quando la vicenda era ancora materia bollente, sono stati manipolati alla bisogna.

Tanti sono stati i giornalisti che hanno cavalcato l’onda dello sdegno di fronte a un ragazzo mostruosamente freddo, dallo sguardo glaciale, dall’atteggiamento scostante e vagamente viscido. Con quella faccia, Alberto Stasi non poteva che essere un mostro. E così è stato quasi sempre descritto. Oltre ogni pudore, oltre ogni vincolo deontologico. Ma prima di svelarvi la seconda cosa di cui ci siamo accorti, abbiate ancora un po’ di pazienza. Non ve ne pentirete.

Partiamo dalle basi: cos’è scritto nella sentenza del processo che ha inchiodato Alberto Stasi alle sue immonde responsabilità? La sentenza di condanna da parte della Corte di Appello di Milano presenta ben sette evidenze indiziarie, per ognuna delle quali il giudice fornisce una valutazione all’interno di un quadro indiziario complessivo. Da questo quadro, la Corte emette la sentenza di condanna “oltre ogni ragionevole dubbio”.

I sette indizi che hanno condannato Stasi

Ecco i sette elementi. Riportiamo gli stralci della sentenza con le evidenze indiziarie e le relative valutazioni scritte dal giudice:

1. Chiara Poggi è stata uccisa da una persona conosciuta, che lei stessa ha fatto entrare in casa. Scrive il giudice: "Alberto Stasi era il fidanzato della vittima, in rapporto di confidenza con lei. Ne conosceva la casa e le abitudini; in quei giorni i due giovani erano praticamente soli a Garlasco".

2. Alberto Stasi ha reso un racconto incongruo, illogico e falso quanto al ritrovamento del corpo senza vita della fidanzata. Scrive il giudice: “Stasi non ha detto la verità sul ritrovamento del corpo di Chiara. Il suo racconto è quello dell’aggressore, non dello scopritore”.

3. Sul dispenser del sapone – sicuramente utilizzato dall’aggressore per lavarsi le mani dopo il delitto – sono state trovate soltanto due impronte, entrambe dell’anulare destro di Alberto Stasi. Scrive il giudice: “Anche la posizione delle due impronte, e la non commistione con Dna della vittima, dimostrano che Stasi maneggiò il dispenser per lavarlo accuratamente dopo essersi lavato le mani e avere ripulito il lavandino, il che spiega l’assenza di sangue sul dispenser e nel sifone".

4. Alberto Stasi non ha mai menzionato tra le biciclette in suo possesso proprio la bicicletta nera da donna da subito collegata al delitto. Scrive il giudice: "Il non avere riferito di avere a disposizione la bicicletta corrispondente alla macrodescrizione fattane dalla testimone, evidenzia che Alberto Stasi ne conoscesse l’importanza e la possibilità di collegarlo all’omicidio".

5. Sui pedali della bicicletta di Alberto Stasi [...] era presente copiosa quantità di Dna di Chiara Poggi, riconducibile a materiale “altamente cellulato”. Tali pedali non sono risultati quelli propri di quella tipologia di bicicletta. Scrive il giudice: “I pedali con il Dna della vittima, dissonanti rispetto alla bicicletta, erano apposti sull’unico velocipede appartenente alla famiglia Stasi che non poteva venire confuso con quello individuato dai testi oculari di fronte a casa Poggi”.

6. Alberto Stasi ha fornito un alibi che non lo elimina dalla scena del crimine. Scrive il giudice: “Le attività che Alberto Stasi ha dichiarato di avere svolto la mattina del 13/8 consentono di collocarlo su tale scena in una finestra temporale compatibile con la commissione del delitto.

7. L’assassino era un uomo che calzava scarpe n°42. Scrive il giudice: “Alberto Stasi possedeva e indossava anche scarpe taglia 42”.

Tirando le fila del discorso, la responsabilità di Stasi è stata ritenuta accertata dalla Corte anche in assenza di una prova diretta – l’iconica “pistola fumante” – e in assenza di un movente. Ma allora come è stato possibile condannarlo? Ecco spiegato: nel nostro ordinamento giuridico l’esistenza di un fatto – in questo caso la responsabilità omicidiaria di Alberto Stasi – non può essere dedotta da indizi se non quando questi indizi siano gravi, precisi e concordanti.

Nello specifico, un indizio è grave quando è dotato di un grado di persuasività elevato e riesce a resistere a eventuali obiezioni; è preciso quando non è suscettibile di diverse interpretazioni; è concordante nel senso che ci devono essere più indizi che confluiscono nella stessa direzione. La sentenza di condanna di Alberto Stasi, quindi, è fondata su prove indiziarie che sono state ritenute dal giudice gravi, precise e concordanti.

E qui arriviamo alla seconda cosa di cui ci siamo accorti. E ce ne siamo accorti dopo aver letto – lo ripetiamo – gli atti processuali supportati dai dati oggettivi raccolti durante le indagini. Nessuno dei sette indizi che abbiamo riportato è univoco, grave, preciso e concordante. Nessuno.

Esistono molteplici fatti che spiegano in modo alternativo, semplice e non obiettabile ciascuno dei sette indizi (ma non solo quelli) per cui Stasi è stato condannato. E ci siamo anche accorti che neanche la lettura congiunta di tutti gli indizi identifica la responsabilità dell’omicidio ad Alberto Stasi.

Oggi la sentenza di condanna di Stasi è passata in giudicato e confermata dalla Suprema Corte di Cassazione. Un’eventuale richiesta di revisione del processo potrebbe essere chiesta solo se emergessero nuove prove o se fosse possibile usare nuove tecnologie per valutare le prove esistenti e lo diciamo subito senza pericolo di fraintendimenti: non c’è nessuna nuova prova e tutte le prove/evidenze indiziarie sono state già ampiamente valutate. Il problema è che forse sono state valutate male e noi vi mostreremo il perché.

Nel corso di questo lavoro che – ne siamo certi – provocherà non pochi malumori, analizzeremo alcuni

aspetti cruciali di questa vicenda e alla fine, solo alla fine, ci porremo insieme a voi – lettori e lettrici – una domanda semplice e lineare: giustizia è stata fatta?

1- Continua

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