Dieci anni fa Francesco Cossiga se ne andò in silenzio, solo e malato, lasciando per sempre la scena che aveva occupato con una personalità spropositata ed eccezionale, che stupì tutti. Indignò molti ma che scaturiva da una personalità straordinaria, in grado di prevedere e anticipare le conseguenze che avrebbe avuto in Italia la dissoluzione dell'impero sovietico. Quella dissoluzione avrebbe spodestato il nostro Paese dalla comoda posizione di «cerniera» fra Est e Ovest, che era stata la sua rendita per quasi mezzo secolo. I due grandi protagonisti - la Democrazia cristiana e il Partito comunista - si sarebbero estinti come dinosauri se non si fossero brutalmente modificati anticipando i tempi, o sarebbero stati travolti. Il Pci si trasformò in corso nel Pds, pronto a ricevere l'eredità di un potere ormai disfatto, mentre la Dc tendeva a disperdersi o a congiungersi con la sinistra. Cossiga aveva visto in tempo questa bufera e cominciò a dare segnali di insofferenza e altri di raccomandazione per evitare la catastrofe. Ma poiché nessuno è amato se tenta di essere un profeta in patria, Cossiga fu attaccato specialmente da tutta la sinistra - politica ed editoriale - inventando la bestia nera da uccidere o almeno da imbavagliare ed estromettere. Cossiga aveva un temperamento bizzarro noto a tutti, ma assolutamente non era «matto».
La nostra amicizia iniziò quando La Stampa mi mandò a Gela per l'inaugurazione dell'anno giudiziario, per vedere quale altro show il presidente avrebbe messo in scena, come aveva già fatto diverse volte in quei giorni. Io andai un po' di malavoglia e ignoravo che la sera precedente fosse andata in onda una mia intervista con Catherine Spaak nel suo programma settimanale. Cossiga mi prelevò dalla selva dei cronisti confinati dietro le transenne e mi portò con sé nella sala in cui pronunciò un'invettiva contro il giornalista Giorgio Bocca che aveva attaccato i carabinieri coinvolti nei delitti della Uno Bianca. Io pensai che era molto fervente e aggressivo, ma non matto. E lo scrissi senza rendermi conto di avere infranto un tabù, anzi un tacito patto fra giornalisti e politici secondo il quale tutti dovevano dire scrivere e denunciare scandalizzati che il presidente della Repubblica era impazzito per indurlo alle dimissioni o dichiararlo mentalmente inadatto a svolgere il suo ruolo. La giornalista dell'Economist Tana de Zulueta fu portata in trionfo per avere scritto che Cossiga era matto come la lepre marzolina di Alice nel Paese delle meraviglie e l'Italia diventò un Paese molto più matto di quanto lo fosse Cossiga, che non era matto affatto.
Cossiga era stato in silenzio per alcuni anni duranti i quali aveva assistito dalle finestre del Quirinale al disfacimento della Repubblica e aveva visto con molta lucidità il piano che prevedeva, con il tifone di Mani Pulite che tagliò la testa a tutti i partiti tranne che al Pci, la sostituzione per via rivoluzionaria della vecchia classe dirigente democristiana, socialista e laica. Fu a quel punto che l'imprenditore Silvio Berlusconi - dopo avere vanamente fatto il tifo per Mario Segni che non fu sostenuto dal segretario democristiano Mino Martinazzoli, che aveva raccolto moltissimi consensi sulla sua linea di rinnovamento - decise di tagliare il nodo gordiano scendendo in campo lui stesso con un partito nuovo di zecca strutturato sull'organizzazione di Publitalia, che raccoglieva la pubblicità per le sue televisioni.
Il resto è noto: nacque una coalizione di centrodestra che metteva insieme leghisti ed ex missini, senza farli incontrare, poi la vittoria e l'immediata guerra delle procure e degli avvisi di garanzia. Cossiga non fu neutrale in questa guerra e si schierò sempre contro lo strapotere politico dei magistrati, attirandosi l'odio crescente della sinistra. Ma per la sinistra istituzionale («quei signori comunisti di una volta») cercò sempre di mantenere rapporti personali stretti e rispettosi. Questa fu per lui la maggiore delusione perché tutti coloro che da sinistra, lo avevano eletto e lodato, adesso erano i suoi nemici più feroci.
Cossiga era stato per molti anni l'uomo di Aldo Moro che lo aveva voluto con sé per occuparsi dell'intelligence e dei rapporti in particolare con gli americani e gli inglesi e per valutare in maniera intelligente le mosse del Partito comunista, eternamente in mezzo al guado perché non riusciva mai a compiere il passo conclusivo per l'atteso ma mai arrivato «strappo» dall'Unione Sovietica. Si sentì profondamente ferito dall'atteggiamento di suo cugino Enrico Berlinguer, segretario del Pci e autore del progetto di «compromesso storico», il quale rispose alle sue manifestazioni di affetto dichiarando che con i cugini al massimo «si mangia l'agnello a Pasqua». Berlinguer non esitò a metterlo in stato d'accusa davanti al Parlamento quando aiutò Carlo Donat Cattin, capo della corrente sindacale democristiana, a rintracciare suo figlio che era un militante terrorista di Prima Linea. Diventò ben presto un uomo solo, abbandonato da tutti, democristiani e comunisti in particolare. Io scrissi un libro, Cossiga uomo solo per Mondadori e lui venne alla presentazione in via Sicilia a Roma dove inaugurò un termine del tutto nuovo per la politica: il verbo «picconare». Disse di avere svolto il duro mestiere del picconatore per rimuovere gli ingombri della vecchia repubblica e dei suoi parassiti e che stava pagando il prezzo per questa opera di bonifica o, come si direbbe oggi, di sanificazione. Divenne così «il Picconatore», il suo soprannome e la sua funzione repubblicana: colui che abbatteva edifici fatiscenti e pericolosi. Si rivolse con grande dignità alla nazione in uno dei suoi rari messaggi presidenziali, spiegando con competenza e cultura costituzionale i rischi che stava correndo il Paese.
Poi venne la stagione delle stragi di mafia e delle strategie politiche a esse connesse. Incaricò, d'accordo con Andreotti presidente del Consiglio, Giovanni Falcone di indagare, con credenziali diplomatiche (Falcone non era più un procuratore ma dirigeva le carceri) sulla fuga del tesoro dell'Unione Sovietica che secondo l'ambasciatore Yuri Adamishin veniva riciclato in Italia con tangenti di entità mostruosa. La fine di Falcone è nota e anche dell'inchiesta. Io accompagnai Cossiga nel suo esilio in Irlanda quando decise di dimettersi con qualche giorno d'anticipo sulla data di scadenza prevista. Mi portò con sé a Dublino e fu un viaggio piuttosto mesto. Ci siamo poi rivisti molte volte, anche come senatori della Repubblica.
Quando lo andai a trovare l'ultima volta per prima cosa mi disse: «Guarda che il tuo telefonino è di un modello vecchio. Io ho appena ricevuto il nuovo». Poi mi portò nello studio che era il sancta sanctorum dei suoi oggetti tecnologici e bandiere del regno di Sardegna.
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