Divorzio, mogli mantenute per legge

Sentenza cambia tutto: «Più diritti a chi s'immola per la famiglia»

Divorzio, mogli mantenute per legge

Colpo di scena: la rivoluzione è finita e si innesta una spinta reazionaria eguale e opposta, sia pur ammantata da propositi di evoluzione e cambiamento. Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza pubblicata l'11 luglio 2018, non si limitano ad annullare gli effetti innovatori della precedente pronuncia a sezione semplice del maggio 2017 - quella che aveva fatto gridare tutti alla rivoluzione segnando, per un anno abbondante, le sorti dei giudizi pendenti - ma tracciano un percorso che finisce per riportare le lancette dell'orologio indietro di oltre quarant'anni, quasi riesumando il testo originario della legge sul divorzio, quella del 1970, poi modificata dalle riforme successive, normative e giurisprudenziali. «Cominciare una rivoluzione è facile, è il portarla avanti che è molto difficile»: così diceva Nelson Mandela non immaginando certo che in Italia, nel campo del diritto, più che difficile è impossibile. Siamo ai limiti della schizofrenia «nomofilattica» perché se è vero che il nostro supremo organo giurisdizionale, la Corte di Cassazione, deve garantire l'uniforme interpretazione delle norme di diritto, non è obiettivamente normale che, da un anno all'altro, si assista a tanti colpi di scena. Così, francamente, è troppo e ora sarà davvero complesso riparare ai danni prodottisi nel frattempo a quelle mogli (essenzialmente loro) che hanno, magari irreparabilmente, perduto tutto nell'attesa di questa definitiva sentenza delle Sezioni Unite. Quel che colpisce sono i tempi con cui due sentenze si fronteggiano modificando, in un lasso così ristretto, la natura dell'assegno di divorzio, con effetti pratici disorientanti. Non nascondiamoci dietro un dito: la sentenza delle Sezioni Unite annulla e resetta l'orientamento dell'ultimo anno in materia di assegno di divorzio. Per la sentenza n. 11504 del maggio 2017 i giudici dovevano prima verificare se il coniuge richiedente disponesse di mezzi adeguati per una vita indipendente e dignitosa e poi, soltanto a esito negativo di tale accertamento preliminare e autonomo, si poteva dare accesso ai parametri determinativi dell'assegno, alla comparazione quindi delle rispettive capacità e altri criteri atti a perfezionare la misura dello stesso. Per le Sezioni Unite questa modalità è miope e ingiusta perché finisce per equiparare tutti i matrimoni senza considerare la storia soggettiva della relazione familiare, violando la dignità della persona ed i principi fondamentali di uguaglianza e tutela della famiglia di cui agli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione. Oggi torna quindi in auge la necessità del giudice di valorizzare caso per caso, dando rilievo al contributo fornito da ciascun coniuge alla conduzione della vita familiare e alla formazione del patrimonio comune e personale, in relazione anche alla durata del matrimonio. In gergo tecnico si equipara la funzione assistenziale dell'assegno di divorzio a quella «compensativa» e «perequativa»: in gergo comune sono «salve» quelle mogli che hanno immolato la loro vita ai figli e alla famiglia, sacrificando prospettive lavorative e di carriera.

Giusto, per carità, ma così si torna improvvisamente al passato, addirittura con maggior enfasi rispetto agli orientamenti giurisprudenziali degli ultimi trent'anni. È una sentenza «salva-mogli», diciamocelo: queste possono riporre i fazzoletti irrorati per oltre un anno e passarli direttamente ai mariti o ex mariti perché ora tocca a questi struggersi e preoccuparsi.

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