Le direttive che arrivano dalla Nigeria sono chiare: "Prendersi l'Italia, dividerla in vari campi e insediarsi a seconda della matrice della gang". È quanto emerso dall'inchiesta coordinata dalla Dda di Bari che ieri ha portato all'arresto di 32 aderenti ai clan della mafia nigeriana. “La più forte” tra le organizzazioni criminali straniere che operano sul nostro territorio, così l'ha definita la scorsa settimana il procuratore nazionale Antimafia e Antiterrorismo, Federico Cafiero De Raho. Una piovra che possiede “articolazioni in quasi tutte le regioni italiane e in tutti i Paesi del Vecchio Continente”, oltre a poter contare su “una base molto forte nel Paese d’origine”. Un’unica "cupola" che coordinerebbe chi opera sui singoli territori. A testimoniarlo ci sono gli arresti degli affiliati ai clan Viking e Maphite, eseguiti martedì in almeno otto regioni italiane e all’estero in Germania, Francia, Olanda e Malta.
Da confraternite a mafie: così i nigeriani sfidano i boss
In principio erano i “cult”. Confraternite universitarie nate negli anni ’70-‘80 che durante la transizione democratica in Nigeria iniziano a mettersi al servizio dei potentati locali in lotta, fino a trasformarsi in vere e proprie organizzazioni criminali. Black Axe, Eiye, Vikings, Maphite, Black Cats: sono i nomi dei clan più spietati. La prima apparizione in Italia risale al 1995, ma bisogna aspettare la metà degli anni 2000 perché arrivino le prime segnalazioni degli 007 sulle attività criminali gestite dagli africani. Nel 2011 è la stessa ambasciata nigeriana a Roma ad avvertire l’intelligence della presenza in Italia di referenti delle sette di Lagos e Benin City. La nostra penisola viene considerata da sempre come una base strategica. Quella nigeriana, infatti, come chiarisce la Dia nell’ultimo rapporto inviato al Parlamento, è una mafia a “spiccata vocazione internazionale”, che per espandersi sfrutta i flussi migratori. I tentacoli dei “cult” si estendono sui traffici più redditizi: dalla tratta degli esseri umani, alla droga, passando per la prostituzione, la compravendita di organi e il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La prima condanna per associazione mafiosa arriva nel 2006 a Brescia. Ventitré nigeriani vengono accusati a vario titolo dei reati più disparati, compresi quelli "commessi con l’obbiettivo di imporsi nel controllo del territorio in danno di altri gruppi criminali”.
Dal Nord Italia le cosche approdano a Castelvolturno. Ed è proprio sul litorale domizio che i cult conquistano il mercato della cocaina e delle prostitute scalzando i Casalesi. Negli anni il business si allarga fino alla gestione della manodopera straniera e del traffico di organi. Secondo indiscrezioni proprio qui si starebbe concentrando un’inchiesta dell’Fbi sugli espianti gestiti dalla mafia nera. Col tempo i clan dei nigeriani si ritagliano spazi sempre maggiori, affiancando le mafie locali. A Palermo i nigeriani gestiscono lo spaccio e la tratta di ragazze nei feudi di Cosa Nostra come Ballarò e Brancaccio. “Ormai il rapporto con i boss locali non è più di sudditanza, ma di coesistenza”, spiega a ilGiornale.it Antonio De Bonis, ex analista dei Carabinieri ed esperto di criminalità organizzata, a margine della presentazione alla Camera dei Deputati del suo dossier sulla mafia nigeriana edito dal Centro Studi Machiavelli. “Quella nigeriana è una mafia in crescita che può contare su forze giovani e numerose che le consentono di diffondersi in maniera capillare – continua - ad esempio a Milano ci sono intere zone in cui stanno riproducendo il sistema di connection-house usato a Castelvolturno”.
I riti di iniziazione e la tratta delle schiave
La rete dei cult è costruita su legami etnici e familiari. Per entrare a far parte delle confraternite bisogna sottoporsi a riti di iniziazione che variano da un’organizzazione all’altra. Il nuovo adepto viene pestato sotto gli occhi del capo e poi costretto a bere lacrime miste a sangue, oppure un cocktail di droghe che gli faccia dimenticare la vecchia identità per abbracciare la nuova. Anche le ragazze che finiscono nel racket della prostituzione vengono iniziate con riti “juju”. Una sorta di stregoneria praticata dalle “maman”, le donne dei clan che gestiscono la tratta, che le lega indissolubilmente all’organizzazione. Le inchieste che si sono susseguite negli anni hanno accertato come le giovani da avviare alla prostituzione vengano fatte arrivare in Italia attraverso le rotte migratorie. Si tratta di un vero e proprio “cliché” operativo: i referenti in Nigeria si occupano di reclutare le vittime, spesso con l’inganno, la rete presente in Libia organizzano la traversata sui barconi, mentre i sodali che operano sul territorio italiano provvedono a fornire i documenti e a sistemarle abusivamente nei centri di accoglienza per richiedenti asilo. Non è un caso che fosse proprio il Cara di Mineo la base operativa dei 26 appartenenti alla confraternita dei Vikings arrestati nel gennaio 2019, oppure che i 32 nigeriani finiti in manette ieri avessero il loro quartier generale nel Cara di Bari.
Cocaina Spa
Sempre secondo la Dia le rotte migratorie utilizzate dai clan nigeriani per far arrivare in Italia i propri connazionali spesso “coincidono con quelli del traffico di stupefacenti”. È questo l’altro grande business dei cult, anche perché, come sottolinea un report del Centro Studi Internazionali (CeSI), la Nigeria è uno snodo fondamentale nel traffico di cocaina dal Sud America all’Europa. La tecnica usata per trasportare le sostanze è quella “a pioggia” che prevede l’utilizzo di diversi corrieri ai quali vengono affidate piccole quantità di droga. Il business frutta ogni anno decine di milioni di euro. Secondo i dati della Banca d’Italia le rimesse verso la Nigeria sono raddoppiate dal 2016 al 2018, anche e soprattutto grazie ai proventi delle attività illecite. Si parla di cifre da capogiro: 74 milioni di euro trasferiti soltanto lo scorso anno attraverso money transfer o hawala, il sistema fiduciario di trasferimento di valori diffuso in Medio Oriente e Nord Africa.
Il contrasto ai clan
Per la Dia la mafia nigeriana rappresenta "una minaccia criminale molto alta". Tanto che, dopo la retata di ieri coordinata dalla Dda pugliese, il presidente della commissione parlamentare Antimafia, Nicola Morra, ha invocato la costituzione di una "task force" contro la mafia nera. Ma per il deputato leghista e sindacalista di polizia, Gianni Tonelli, ormai sarebbe troppo tardi. “La ricerca del politicamente corretto e la visione ideologica del fenomeno migratorio – spiega Tonelli a ilGiornale.
it – non ha consentito di analizzare il fenomeno nella sua reale dimensione, lasciando campo libero a queste mafie, che hanno potuto così radicarsi nel nostro Paese”. “Quando un fenomeno criminale è così diffuso – nota infine l'ex poliziotto – non può essere più arginato con la sola attività repressiva”.
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