Eutanasia, Cassazione: "Nessuna attenuante per chi uccide un malato grave"

La Corte di Cassazione conferma la condanna di un anziano di 88 anni per omicidio volontario. Negato lo sconto di pena all'uomo che aveva sparato alla moglie ricoverata per Alzheimer

Eutanasia, Cassazione: "Nessuna attenuante per chi uccide un malato grave"

Questa sentenza della Corte di Cassazione probabilmente inciderà nella scelta del legislatore sulla questione fine-vita, dopo l'invito che la Corte costituzionale ha rivolto al Parlamento di occuparsi della materia sospendendo il gudizio sul "caso Cappato-dj Fabo". Vediamo cosa ha deciso la Corte: non può essere ritenuta "di particolare valore morale" la condotta di "omicidio di persona che si trovi in condizioni di grave ed irreversibile sofferenza fisica", perché "nell’attuale coscienza sociale il sentimento di compassione o di pietà è incompatibile con la condotta di soppressione della vita umana verso la quale si prova il sentimento medesimo". Con queste parole la Cassazione spiega perché lo scorso giugno ha confermato la condanna a sei anni e mezzo di reclusione per Vitangelo Bini, l’ex vigile urbano di 88 anni che nel 2007 uccise la moglie, malata di Alzheimer, ricoverata all’ospedale di Prato.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso dell’imputato, condividendo le conclusioni dei giudici del merito, che avevano ritenuto che l’uomo, al momento del fatto, si trovasse in condizioni di "diminuita capacità di intendere", riconoscendogli le attenuanti generiche e per l’avvenuto risarcimento del danno, ma non quella dell’"aver agito per motivi di particolare valore morale o sociale".

Il ricorso presentato dalla difesa era incentrato proprio su questo punto. La difesa dell'anziano sosteneva che "secondo il sentire diffuso della comunità sociale, la partecipazione all’altrui sofferenza può essere vissuta, in casi estremi, anche con la soppressione della vita sofferente". Una tesi, questa, che è stata respinta dai giudici della prima sezione penale della Cassazione, secondo i quali questa "nozione di compassione è attualmente applicata con riguardo agli animali da compagnia, rispetto ai quali è usuale, e ritenuta espressione di civiltà, la pratica di determinarne farmacologicamente la morte in caso di malattie non curabili", mentre "nei confronti degli esseri umani operano i principi espressi dalla Carta costituzionale, finalizzati alla solidarietà e alla tutela della salute".

Va bene la compassione, a cui "il sentire comune riconosce un altissimo valore morale", ma a prevalere è il "superiore principio del rispetto della vita umana". Secondo i giudici, inoltre, è "del tutto distinto" il "dibattito culturale sui limiti al trattamento di fine vita e sul rilievo del consenso del malato, fondato sul principio costituzionale del divieto di trattamenti sanitari obbligatori".

Infine la Cassazione ricorda che "le sentenze di merito hanno osservato che nella coscienza sociale è ancora dibattuto il tema della eutanasia, e che comunque è chiaro il ripudio di condotte, come quella posta in essere dall’imputato, connotate da violenza mediante l’uso di arma da fuoco e in un luogo pubblico. Si tratta di argomenti non decisivi - conclude la Corte - ma significativi del perdurante rifiuto, nella coscienza sociale, di condotte caratterizzate da violenza su persona indifesa".

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