Qualche giorno fa il Governatore della Banca d'Italia Fabio Panetta ha dichiarato che oggi l'economia italiana non può fare a meno della crescita del Sud. Gli ha fatto eco Giorgia Meloni all'inaugurazione della Fiera del Levante: le performance del Mezzogiorno hanno da ultimo rappresentato «la locomotiva» economica del Paese. Qualcuno ha ironizzato sulla presunta iperbole, ma i dati corroborano il giudizio. Crescita, occupazione e, soprattutto, bilancia commerciale, dall'indomani del Covid a oggi, hanno segnato al Sud un andamento migliore rispetto al resto del Paese. Dopo tanto tempo, il Mezzogiorno, dunque, torna a convergere. La divina sorpresa dipende da molte ragioni. Il Sud, anche per le sue caratteristiche sociali, ha affrontato meglio la pandemia e meglio ha sfruttato il rimbalzo conseguente la sua sconfitta. Sta spendendo bene i fondi della Coesione che, assieme a quelli del Pnrr (che lo privilegiano), sono le poche risorse finanziarie che il Patto di stabilità consente d'impegnare. La crisi dell'economia tedesca, infine, sposta l'epicentro delle opportunità di crescita dalla Mitteleuropa al Mediterraneo, determinando indubbi vantaggi per le imprese meridionali. È tutto oro quel che luccica? È sufficiente, allora, proseguire sulla via intrapresa per sconfiggere la più antica tra tutte le questioni nazionali? Sarebbe bello affermarlo, ma non è così; anche al netto dei problemi connessi con la criminalità organizzata, che da tempo appartengono anche ad alcuni territori del Settentrione. Vi sono ambiti, non direttamente economici, nei quali la situazione del Sud non migliora o, quanto meno, non migliora abbastanza. I dati Invalsi attestano che in Italia il tasso di dispersione scolastica è sceso al 9,4%, in linea con il target europeo. In alcune regioni del Sud, però, l'abbandono resta insopportabilmente alto. Se poi si guarda alla dispersione implicita - agli studenti che, pur avendo completato gli studi, non possiedono le competenze necessarie per affrontare il mondo del lavoro - il confronto diventa impietoso: circa il 3% al Nord, più del 9% al Sud. Ciò porta il discorso sulla formazione: sfida decisiva dei prossimi anni, per il bisogno di Pubblica amministrazione ed imprese d'adeguarsi alla rivoluzione tecnologica in atto. La situazione del Mezzogiorno, in quest'ambito, è sconfortante. Molti degli scandali politici - da ultimo la compravendita dei voti in Puglia - passa dalla mala gestio della formazione professionale. Secondo un rapporto INAPP, in Lombardia, Lazio, Piemonte e Veneto si concentrano quattro quinti dei percorsi professionalizzanti completati, mentre le aziende meridionali sembrano restie a sfruttare gli incentivi per l'apprendistato, con tassi di adesione del 24%, rispetto al 55-59% del Centro-Nord. Inoltre, alla fine del 2023 il tasso di mancata partecipazione al lavoro delle donne al Sud raggiunge il 42%, rispetto al 15,9% del Nord. Per quel che riguarda l'invecchiamento attivo - la capacità di rimettersi in gioco anche dopo il pensionamento, per continuare a dare un contributo positivo alla società - secondo l'Active Ageing Index, il divario tra Nord e Sud continua a salire. Il discorso potrebbe articolarsi ulteriormente. Quanto fin qui rilevato, però, è sufficiente per affermare che l'emergenza del Sud si chiama innanzitutto capitale sociale. È questo il gap che rischia di far perdere al Mezzogiorno l'ennesima occasione, configurando la crescita economica in atto, una volta di più, come esogena. Determinata, cioè, da fattori esterni che, per questo, non sono in grado di protrarre nel tempo lo sviluppo. Il problema del Sud non è, dunque, l'autonomia, che deve assolutamente conquistare per crescere durevolmente.
È la differenza che, per essere contenuta, necessita di un piano sussidiario e straordinario del quale lo Stato deve farsi carico. Per correre è necessario avere buone gambe e per concorrere gli stessi mezzi, sennò il risultato è scontato già prima che la gara inizi.
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