La guerra silenziosa del tycoon

Dazi e confini, la guerra che non fa troppo rumore

La guerra silenziosa  del tycoon
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Ci sono guerre senza fuoco e silenziose, dove si muore più lentamente. Al posto delle bombe ci sono numeri, percentuali, statistiche. È la guerra dei dazi, dove ogni decimale è una trincea e ogni tariffa una linea del fronte. La notizia è che adesso con Donald Trump si sta entrando in una nuova fase. La scelta di punire Canada e Messico per l'occhio distratto sugli immigrati irregolari e le minacce all'Europa, con l'accusa di campare alle spalle degli americani, mostra una strategia imperiale alternativa. Non è il caso di impegnarsi con le armi ai confini del mondo, l'ordine si ristabilisce colpendo i nemici, e soprattutto gli alleati, nel portafoglio. Qualcuno direbbe che è una logica da mercante, che rende l'orizzonte meno caotico, ma in questa strategia c'è una dose di azzardo. Il rischio è disgregare l'Occidente, con i partner che vengono trattati senza troppi riguardi come semplici sudditi. Il rischio è non tenere conto dei muri che si stanno alzando, con la scusa di rassicurare i propri elettori. Tutto questo ha un costo. Forse vale la pena vedere cosa accadde nel 1930, l'anno in cui l'America pensò di poter vincere la Grande Depressione chiudendosi a riccio. Due senatori, Reed Smoot e Willis C. Hawley, convinsero il Congresso che bastava alzare i dazi su ventimila prodotti per salvare i farmers dell'Iowa e i manovali di Detroit. Era come curare un'influenza con l'arsenico. Il commercio mondiale si accartocciò come un foglio di carta nel fuoco, crollando del sessantacinque per cento in tre anni.

Non fu solo un disastro economico. Fu il prologo di una tragedia. Quel protezionismo selvaggio alimentò i demoni del nazionalismo in Europa. Questa nuova guerra dei dazi che sta ridisegnando la mappa del commercio mondiale. È come se il pendolo della storia avesse invertito la sua oscillazione. Per trent'anni abbiamo vissuto nell'ipotetica età dell'oro della globalizzazione, quando le merci viaggiavano libere come l'aria e i capitali fluivano veloci come la luce. Era il mondo piatto di Thomas Friedman, dove distanza e confini sembravano reliquie del passato. Ma i confini non erano morti. Trump li ha risvegliati, ma sarebbe un errore pensare che sia stato solo lui.

La realtà è che la globalizzazione aveva promesso troppo e mantenuto troppo poco. Aveva promesso prosperità per tutti, ma aveva creato nuove disuguaglianze. Aveva promesso un mondo più connesso, ma aveva generato nuove fratture. La guerra dei dazi tra America e Cina non è solo una questione di bilancia commerciale. È una guerra per il futuro, per chi controllerà le tecnologie che plasmeranno il Ventunesimo secolo. Quando Trump mette nel mirino Huawei non sta solo proteggendo l'industria americana, sta tracciando una nuova cortina di ferro, digitale questa volta, tra l'America e il resto del mondo.

È come se il globo si stesse riorganizzando in blocchi, in sfere di influenza economica. Non è più il villaggio globale di Marshall McLuhan, ma un arcipelago di isole commerciali collegate da ponti selettivi. La lezione della storia è che le guerre dei dazi sono come le guerre vere: facili da iniziare, difficili da vincere, impossibili da controllare completamente.

Trump dovrà tenere conto che i muri, alla fine, fanno male soprattutto a chi li costruisce.

Vittorio Macioce

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