"Mi hanno attaccato al muro e...". Vent'anni di orrore al Forteto

Vent'anni di vita passati dentro la comunità lager Il Forteto. Una vittima di Rodolfo Fiesoli racconta a IlGiornale.it i maltrattamenti che è stato costretto a subire

"Mi hanno attaccato al muro e...". Vent'anni di orrore al Forteto

“Mi hanno portato in una stanza, erano Rodolfo Fiesoli, i miei genitori affidatari e altre due persone che conoscevo da anni. Mi hanno attaccato al muro e con un coltello puntato alla gola mi hanno minacciato. Se avessi parlato, se mi fossi permesso di denunciare quello che avevo vissuto se la sarebbero rifatta sulla mia bambina. Mi avrebbero portato via la mia ragione di vita”. Era il 2017. Da qualche anno la comunità Il Forteto era finita nell’occhio del mirino. Da lì a poco, il vaso di pandora sarebbe stato scoperchiato e i racconti dei ragazzi che per anni hanno vissuto tra le mura della cooperativa di Barberino del Mugello iniziavano, a poco a poco, a delineare i contorni di una realtà da film degli orrori.

Quello stesso giorno Emanuele si era presentato in tribunale, al banco dei testimoni, dalla parte dell’accusa. Quando scoppiò il caso le denunce nei confronti dei gestori della comunità parlavano di maltrattamenti e violenze sessuali sui ragazzi affidati alla comunità dai servizi sociali. “Prima di agire sul corpo loro agivano sulla mente”, racconta con lo sguardo nel vuoto Emanuele. Come se la sua mente non riuscisse ancora a respingere i fotogrammi di quell’incubo durato vent’anni. E così, quel giorno, su Emanuele aveva vinto la paura. Di nuovo. Dopo le minacce di Fiesoli e i suoi, il ragazzo accettò di fargli da spalla. “Negai di aver visto qualsiasi cosa mi venisse chiesta, ma non ce la feci a smentirla. La sera mi ritrovai con il coltello alla gola”.

Ma quello per Emanuele fu l’ultimo giorno al Forteto. Chiamò la sua compagna di allora, si fece venire a prendere e scappò via chiudendo dietro di sé la porta di un calvario durato tutta una vita.

La storia di Emanuele

Era il 1996 quando Emanuele entrò al Forteto assieme ai suoi fratelli dopo aver compiuto il suo decimo anno di vita. “La più grande era mia sorella, di 12 anni, poi c’erano i piccini. 7 e 8 anni”, ricorda la vittima. I servizi sociali lo avevano fatto allontanare dalla sua famiglia. La situazione a casa era difficile, diretta conseguenza di un padre violento e aggressivo che spesso picchiava la madre dei suoi figli e chi di loro provava a fermarlo. “Ero sempre io quello che si metteva in mezzo senza riuscire a restare fuori dai guai e papà mi picchiava ogni volta”, continua Emanuele. I ragazzini vennero dati in affidamento ad una coppia che faceva parte della comunità di Rodolfo Fiesoli. Trasferiti a Vicchio iniziarono a vivere in questa nuova casa. “Eravamo tanti. I “genitori” in media erano una 70ina di persone. Altrettanti i ragazzi”. Tutti dovevano fare tutto e in quegli anni Emanuele ha cambiato decine di lavori. Ma il fulcro della convivenza forzata erano le teorie sulle quali venivano costruiti i rapporti tra le persone. Ogni azione si basava sulla falsa storia del superamento dei traumi subiti prima di entrare nella cooperativa. “La chiamavano terapia d’urto per liberarti da quello che avevi vissuto. Nei fatti erano violenze sessuali,” ammette Emanuele senza riuscire a fermare il tremore delle mani sul tavolo della cucina. Con gli occhi bassi e qualche pausa di riflessione ci spiega che, nel luogo degli orrori, si prediligeva l’omosessualità. Secondo i capi era “una sorta di amore puro che ti liberava dalle cose materiali”.

Emanuele nel cortile del Forteto
Emanuele nel cortile del Forteto

Le Violenze

“Ricordo quel giorno come se fosse adesso. Ero entrato in comunità da appena due mesi quando dovetti affrontare il primo chiarimento”, spiega il ragazzo. Era così che i boss della setta chiamavano gli incontri a porte chiuse con i singoli bambini. Le sedute di plagio. Le violenze psicologiche che servivano a fare il lavaggio del cervello ai piccoli. “Rodolfo Fiesoli mi guardò e mi disse che avevo il viso bianco e quindi vi era in me una paura, serviva affrontarla in un chiarimento. Provai a dire che non c’era niente che non andava, ma loro in maniera forzata mi misero a sedere, in castigo. In quei momenti, persino un bambino di 11 anni riusciva a capire alla velocità della luce che avrebbe dovuto fingere altrimenti sarebbe finita male. Il giorno prima ero andato a cavallo, dissi che quello mi aveva impaurito. Fu la prima di tante bugie”. Bugie per scappare alle violenze, bugie per allontanare le percosse. Falsità urlate a gran voce per evitare di essere deriso di fronte a tutti. L’umiliazione era l’arma più forte. “Ti facevano sentire matto, ti umiliavano davanti a tutti se solo non confermavi quello che loro sostenevano o se provavi a ribellarti alle violenze psicologiche”.

Inizialmente la storia delle paure, poi le "bestie" arrivavano all’argomento cardine: la famiglia di sangue. “Quando parlavano della mia famiglia sapevo che avrei preso le botte. Mi raccontarono che mia madre non mi voleva che sapevano di incesti con i miei nonni. Io ero certo che non fosse vero, l’unico problema della mia famiglia era stato mio padre che ci picchiava, ma loro volevano allontanarmi da tutti e ce la fecero”. L’ultima volta che vidi mia mamma era dicembre del 1996.

Emanuele arrivò a dichiarare davanti ad un giudice cose mai avvenute all’interno delle mura di casa sua nei primi anni di vita. “Per colpa delle accuse da parte mia nei confronti di mia madre nel '98 le hanno tolto mi sorella più piccola, che io non ho mai conosciuto. É una cosa che non so se riuscirò mai a perdonarmi”. Eppure, prima di arrivare a questo, Emanuele aveva provato a lottare. Si era ribellato. Si era opposto alle costrizioni. “Il padre a cui ero affidato in comunità veniva chiamato "Thai", era un picchiatore. Più di una volta sono stato picchiato a sangue. Calci, pugni. Non ti portavano mai in ospedale, ma nella loro infermeria. Andai lì con due costole incrinate e poi, a 16 anni, quando mi ruppero il naso”, racconta ancora Emanuele.

La vita al Forteto

Infanzia, adolescenza, maturità. Emanuele ha affrontato tutte e fasi più importanti della sua vita nella setta toscana. Prima la scuola e poi il lavoro, infine l’amore e la famiglia, l’ennesimo sogno stroncato da falsità e bugie.

“Dopo aver terminato gli studi ho iniziato a lavorare, negli anni ne ho fatte di tutti i colori. Lì dentro dovevi saper fare qualsiasi cosa. Ma la mia passione era le macchine”, racconta Emanuele con il sorriso. Negli ultimi anni prima della fuga era quello che il ragazzo, ormai quasi trentenne, faceva. Si portava a casa la pagnotta facendo il meccanico e lo stalliere. Nello stesso periodo conobbe quella che sarebbe diventata la madre della sua bambina. “Ci sposammo nel 2012, le prime denunce erano già arrivate e gli indagati cercavano di rimettere a posto le cose. Dare la parvenza che tutto fosse normale per smentire chi aveva raccontato le atrocità che accadevano là dentro”. Per questo Emanuele e la sua compagnia si sposarono nello stesso anno in cui lo fecero altre coppie del Forteto. Una strategia per sostenere la tesi che all’interno della comunità su cui i ragazzi avevano puntato il dito in realtà vivessero persone che potevano farsi la propria vita, dopo essere riusciti a superare i propri traumi grazie alle tecniche del Fiesoli.

“La realtà è che a me sono stati provocati dei traumi psicologici che ancora oggi fatico a superare. Non ho mai avuto un rapporto sessuale sereno fino a circa due anni fa. Non riuscivo a togliermi dalla testa le loro parole di quando mi dicevano che ero come mio padre. Ogni cosa riguardante la sfera sessuale la associavo ad una violenza”, spiega Emanuele.

Emanuele al pianoforte

La lotta per avere giustizia

Dopo il matrimonio, quando scoprì di essere incinta, anche la moglie di Emanuele entrò in comunità, pronta a vivere la stessa vita del compagno, ma la loro permanenza al Forteto come famiglia fu leggermente diversa dagli anni passati. Nel frattempo Rodolfo Fiesoli era stato arrestato e all’interno della tenuta la situazione era tornata ad assumere sembianze più vicine ad una realtà normale. “Mia moglie ha stretto rapporti con la mia famiglia affidataria e non ha mai assistito alle violenze che io avevo subito anni prima”. L’attesa della figlia per Emanuele non fu un momento facile. "Avevo un'idea di famiglia che non mi permetteva di vivermela in maniera serena", racconta.

Da lì iniziarono le liti tra la coppia. Un periodo di crisi durante il quale la mamma si scagliò dalla parte dei carnefici, la famiglia affidataria di Emauele, che la ragazza aveva conosciuto al Forteto nel periodo di "redenzione". Tutt'oggi continua la lotta senza tregua per cercare di portare via dalle braccia del paddre la piccola. Tutto per aver dato ascolto alla persona sbagliata, senza mai credere alla verità del papà. Verità che, nel 2017, il padre è riuscito a denunciare ai pm. "Ho raccontato tutto. Ho denunciato i miei genitori affidatari e tutte quelle persone che ancora nessuno aveva mai citato, ma che sono parte integrante di quel lager che mi ha rovinato la vita. Oggi voglio giustizia." Una giustizia che fatica ad arrivare.

Dopo tre anni dal giorno della denuncia questa sembrava svanita nel nulla. "Ho fatto un video sul mio profilo Facebook denunciando la cosa. Esattamente due giorni dopo ecco che arriva la richiesta di archiviazione - racconta Emanuele - per me è stato l'ennesimo colpo al cuore".

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