Ma i nostri figli non hanno diritto alla privacy

Ma i nostri figli  non hanno diritto alla privacy

Facebook, Twitter, Instagram, Pinterest, (ma ve ne sono a iosa) sono i più noti esempi di comunità virtuali all'interno delle quali la gente riversa la propria vita, ignara del fatto che in esse non esista diritto all'oblio. Luoghi virtuali dove i nostri figli sono attivi giorno e notte all'insaputa di noi genitori, incapaci, prima ancora che impotenti, di seguirli.

Luoghi dove può succedere di tutto e dove possono intrecciarsi le vite di ragazzi che ormai non conoscono più i limiti del lecito e dell'illecito. Vita condivisa con «amici» più o meno virtuali, dove si posta di tutto e di più: adulti con adulti, ragazzi con ragazzi, adulti con ragazzi.

Anche le comunicazioni familiari spesso avvengono attraverso i social network e sono molti i genitori a richiedere o accettare l'amicizia su Facebook, dialogando con i figli a suon di «like» o «emoticon» che trasformano i sentimenti in faccine più o meno empatiche.

La vita, dunque, finisce per declinarsi nello schermo di uno smartphone, mentre il successo personale si misura nel numero di «like» e followers: l'apparenza virtuale si sostituisce alla sincerità degli affetti e di quei pochi amici veri di cui avrebbe avuto bisogno la ragazza di Rimini, quella maledetta notte in discoteca ripresa dalle diaboliche «amichette» bercianti mentre - ubriaca e inerme - veniva stuprata da uno sconosciuto nel bagno di una discoteca.

Di amici sinceri avrebbe avuto bisogno anche la ragazza napoletana, suicida a trentun anni perché diventata lo zimbello della rete dopo la divulgazione di riprese hard che la coinvolgevano.

Fatti gravi che pongono la necessità di riflettere sul ruolo che i social network hanno assunto nella vita delle nuove generazioni, ormai da essi dipendenti, storditi, posseduti. Soprattutto pongono l'obbligo imperativo, a noi genitori, di controllare cosa succede dentro quel mondo impalpabile in cui navigano e si perdono i nostri figli.

Condivido pienamente la posizione del vicequestore della polizia postale di Milano, addetta alle problematiche di cyberbullismo e sexting (invio di messaggi, video, file di natura sessuale) che invita esplicitamente i genitori a guardare materialmente i cellulari e computer dei nostri ragazzi, di fatto superando il concetto di privacy del minore. Questo perché nel bilanciamento tra il dovere di un genitore di vigilare ciò che fa un figlio minorenne - da un lato - e la sua privacy - dall'altro - prevale il primo: l'obbligo educativo, infatti, non può limitarsi a ciò che appare dei nostri figli, non può accontentarsi della superficie, perché è sotto la crosta che si trova la sostanza e si annidano i veri problemi.

L'obbligo di vigilanza, dunque, oggi diventa più stringente perché si giustifica non solo per la necessità di evitare conseguenze risarcitorie in capo a chi esercita la responsabilità genitoriale, ma soprattutto per proteggere adolescenti fragili dai pericoli o persino da reati che nemmeno si rendono conto di avere compiuto. Che si arrabbino pure i nostri ragazzi, che mettano pive lunghe e persistenti, ma sappiano che i genitori (per lo meno quelli consapevoli del loro ruolo) lo fanno per il loro bene, non per morbosa curiosità.

Da una caduta, infatti, rischiano di non alzarsi più, come la giovane partenopea suicida, cui un giudice - da quel che leggo sui giornali - ha accolto il ricorso cautelare, rigettando tuttavia le domande principali relative al diritto all'oblio della sua vicenda e condannandola a 20mila euro di spese legali, in virtù di quel perverso meccanismo della soccombenza prevalente: una ragazza costretta a versare quanto non riuscirà a guadagnare in anni di lavoro per rimborsare gli oneri dei legali di società multimiliardarie come Google, Yahoo, YouTube.

Si sta profilando qualcosa di perverso che non ha funzionato e di cui abbiamo tutti perso il controllo. Ed è per questo che noi adulti abbiamo l'obbligo di riscattarci dalla nostra inerzia. Dobbiamo tornare a educare i nostri figli ai temi del riserbo e della discrezione, due principi che sono andati perduti nella e-generation dove tutto va esibito e condiviso. Dobbiamo fare comprendere ai nostri figli che il mondo ha fatto uno scarto in avanti ed è cambiato tutto il nostro modo di vivere: come in un film o in un videogioco ogni nostra parola e azione viene registrata in un server eterno e ci verrà riproposta per sempre.

Un errore, un peccato, una debolezza, non sarà solo una parentesi del nostro passato ma verrà scolpito in perpetuo nella memoria collettiva. Ed è un nostro dovere evitare che i nostri ragazzi vengano risucchiati dagli ingranaggi di un Grande Fratello che non perdona e non dimentica, esposti alla gogna senza possibilità di riabilitazione.

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