E pensare che c'è stata anche un'epoca in cui Ikea non c'era. In Italia in fondo un'epoca nemmeno remota. Il primo negozio gialloblù aprì nel 1989 a Cinisello Balsamo alle porte di Milano e fino al 2000 comprare mobili svedesi era un privilegio riservato agli abitanti delle aree metropolitane del Centro-Nord. Poi nel nuovo millennio siamo diventati tutti ikeisti. Abbiamo imparato a familiarizzare con le librerie Billy, con i divani Klippan, con le mensole Lack, con le cucine Kungsbacka. I maschi italici si sono poco virilmente rassegnati a trascorrere le domeniche mattina al guinzaglio di mogli e fidanzate, spaesati per le stanze e i bagni di una grande casa popolata da sconosciuti smarriti come loro. Qualcuno ha perfino preso ad apprezzare le polpette surgelate (Kötbullar) acquistate nella bottega e portate a casa o mangiate direttamente nell'affollato ristorante, giungendo - i più temerari - perfino ad accompagnarle come da catalogo con la marmellata ai mirtilli e una salsina dal colore allarmante. Quanto alle patatine (Potatischips) sono patrimonio dell'umanità, anche quelle con la panna acida (Gräddfil&Lök). Chi non le ama ha qualche problema, faccia outing e non rompa.
Ingvar Kamprad, il signore a cui si deve tutto questo, ha cambiato il mondo più di John Fitzgerald Kennedy e Mahatma Gandhi. Se esistesse il Nobel per la quotidianità lo avrebbe vinto almeno sette volte. Noi lo abbiamo conosciuto: era il 2000, eravamo ad Almhult a visitare la casa madre del colosso svedese e lui in camicia da boscaiolo comprata di seconda mano per naturale nobile tirchieria ci salutò distratti, ignorando quel gruppo di giornalisti italiani emozionati, abituati a ceo in doppiopetto e Rolex al polso.
A lui dovremo sempre alcune cose.
Uno. Con Ikea abbiamo scoperto che il design poteva essere democratico come un'assemblea del liceo. Che si poteva trasformare il soggiorno in un qualcosa simile a un museo contemporaneo senza essere professionisti snob, utilizzando mobili e accessori che alacri progettisti islandesi scopiazzavano (bene) dai geni del disegno industriale mondiale, il tutto in modo credibile e accessibile. Dare ai poveri senza togliere ai ricchi.
Due. Con Ikea abbiamo finalmente smitizzato l'arredamento. Un tempo si rifaceva il look della casa un paio di volte nella vita, spesso solo in caso di traslochi. I cassettoni e le credenze si ereditavano dalla nonna, sui divani si mettevano strati di cellophan che li trasformavano in sepolcri opachi e scomodi. Oggi invece ci si salta su già in negozio e se Ughetto ci sbrodola su il gelato al lampone si cambia la copertura e via. Oggi i soprammobili sono come scarpe, si «splittano» in continuazione e questo ci dà allegria. E l'allegria è merce talmente rara che va bene anche se a darcela è un candeliere Gästvänlig da 9,99 due pezzi.
Tre. Con Ikea abbiamo trovato il piacere abbordabile di sentirci tutti dei bricoleur, inchinati con la brugola in mano a montare scarpiere il sabato pomeriggio con davanti fogli pieni di pittogrammi a prova di analfabeti. Basta seguire passo passo quelle istruzioni per avere il gusto inedito di avere una libreria fatta da noi. È naturalmente un refuso del nostro ego, però con che affetto guardiamo ogni volta quel pezzo di compensato sbilenco carico di dizionari?
Quattro. Con Ikea abbiamo capito che non dobbiamo sentirci in colpa se un buco si spana mentre ci affaccendiamo o quella console si spacca mentre la «costruiamo». Si riporta tutto in negozio e tutto viene cambiato magicamente senza nemmeno dover discutere.
È morto mister
Ikea, che fu forse nazista, forse un taccagno, di certo un genio. Accendete alla sua memoria una candelina Sinnlig davanti a uno scaffale Kallax montato da voi. Requiescat in Pax, che è pure un sistema armadio modulabile.
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