Solo un uomo... solo, questo il titolo di un libro recentemente pubblicato, un’intervista effettuata dal reporter Stefano Santoro al collaboratore di giustizia Armando Palmeri. Ma non solo. Oltre l’intervista, nel libro c’è un memoriale di Palmeri riportato – stando a quanto confermato da Santoro – integralmente. Ma chi è Armando Palmeri?
Uomo di fiducia del boss mafioso di Alcamo Vincenzo Milazzo, Palmeri è stato un mafioso sui generis. Cresciuto in una famiglia benestante, diventa criminale più per spirito d’avventura che per necessità. A capo di una batteria di rapinatori, gira l’Italia pistola alla mano fin quando non viene catturato. In carcere a Spoleto – da lui definito “Università del crimine” - viene a contatto con il gotha della criminalità nazionale, conosce estremisti di destra, camorristi, mafiosi, in un certo senso si fa un nome. Una volta fuori, tornato ad Alcamo nella seconda metà degli anni Ottanta, comincia ad essere corteggiato da Cosa nostra.
Spiccando per un grado d’istruzione non comune al profilo del mafioso medio e da una notevole dote per le pubbliche relazioni, il suo è un curriculum che fa gola a diversi clan, ma Palmeri – che non sarà mai affiliato ufficialmente – ci tiene alla sua indipendenza e, senza mai opporre un diniego secco alla avances che pure gli vengono fatte con insistenza, preferisce fare il “libero professionista”. In che ambito? Difficile dirlo con certezza. Leggendo il suo memoriale, sembra di capire che Palmeri abbia capitalizzato la sua abilità nel tessere reti di conoscenze trasversali, una sorta di faccendiere, per utilizzare un termine riconoscibile. Di certo c’è una cosa: non ha mai ammazzato nessuno e anzi, ci tiene a precisare di aver salvato molte vite sottratte ai plotoni d’esecuzione mafiosi con escamotage di volta in volta differenti.
In buoni rapporti con un pezzo da 90 come Antonino Gioè [mafioso affiliato ai corleonesi e coinvolto nella strage di Capaci, ndr], cugino di Franco Di Carlo [collaboratore di giustizia recentemente scomparso, accusato di essere esecutore materiale dell'omicidio di Roberto Calvi, ndr], dopo aver tergiversato per qualche anno, Palmeri finisce col diventare l’uomo di fiducia di Vincenzo Milazzo, l’unico con cui il giovane boss alcamese si confidasse. È a lui, infatti, che esprime tutta la sua apprensione per un incontro decisamente particolare. Il primo di altri due che avverranno nel giro di poco tempo, nella primavera del 1992.
E se il nome di Armando Palmeri spicca tra quello dei tanti collaboratori di giustizia, è proprio perché è stato lui a riferire di fronte al magistrato referente di questi incontri, quando due uomini dei servizi segreti – introdotti prima da uno stimato medico e poi da un imprenditore misteriosamente suicidato – proposero a Vincenzo Milazzo di prendere parte a un progetto di destabilizzazione della democrazia con una campagna di stragi e addirittura una guerra batteriologica.
Milazzo, consigliato anche da Palmeri, rifiuterà di prestarsi a questo gioco perverso, pur consapevole di esporsi così a un pericolo mortale. E infatti viene ammazzato dall’amico Nino Gioè, che sparandogli alla nuca confiderà a Palmeri di avergli evitato una morte ben peggiore. Sorte ancor peggiore per la sua fidanzata: Antonella Bonomo, 23 anni, incinta di tre mesi, viene presa a calci e strangolata da un commando di uomini d’onore di cui, tra gli altri, fanno parte lo stesso Gioè, Giovanni Brusca e Leoluca Bagarella. La colpa della ragazza? Non solo quella di essere la compagna di Milazzo ma, forse, anche quella di avere uno zio al Sisde, il servizio segreto civile.
Grazie all’intercessione di Stefano Santoro, IlGiornale.it è riuscito a ottenere un’intervista da Palmeri che, notoriamente, è restio a concederne e che da anni porta avanti una solitaria crociata per stabilire delle verità difficili da digerire: a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta pezzi deviati dello Stato non si limitarono a fare affari con Cosa nostra, ma tentarono di sovvertire l’ordine democratico con un progetto stragista poi sposato in pieno dai corleonesi di Totò Riina. Ecco quello che ci ha detto: “Ad alcune domande, su argomenti delicati, sarò costretto a non rispondere. Ho conservato un 1% di fiducia nella magistratura, alcune cose devo dirle a loro. Credo che abbiano il dovere d’ufficio, con questo libro, di aprire un fascicolo. Mi auguro che lo facciano”.
C’è una domanda che ti poni nel memoriale recentemente pubblicato, te la facciamo anche noi, cercando di incoraggiare un’ulteriore riflessione: Per quale motivo degli uomini legati ai servizi segreti si sarebbero avvicinati in prima battuta a un boss certamente capace, ma di secondo piano come Vincenzo Milazzo? Perché non rivolgersi direttamente alla fazione dominante dei corleonesi, come comunque sembrerebbero aver fatto subito dopo?
Perché Milazzo era di un’altra caratura intellettuale. E poi non dimentichiamoci di un piccolo particolare: vicino a Milazzo c’ero io e i Servizi lo sapevano.
Cosa intendi?
Il modus operandi di Riina l’abbiamo visto qual è stato. È stato il suicidio di Cosa nostra.
Vuoi dire che rivolgendosi a Milazzo – che al suo fianco aveva non un killer, ma qualcosa di vicino a un consigliere – i servizi puntavano a fare un lavoro “pulito”? Cioè a compiere attentati e stragi ma preservando l’integrità di Cosa nostra?
Per rispondere ti voglio fare un piccolo esempio: andiamo a vedere la Strage dei Georgofili [Firenze, 27 maggio 1993, un ordigno sventra parte della Galleria degli Uffizi e uccide 5 persone, ndr]. Lì è stato assurdo, per l’organizzazione dell’attentato sono state coinvolte persone che con Cosa nostra non c’entravano nulla [come Antonino Messana, di Trapani ma residente a Prato, cognato di Giuseppe Ferro, il boss successore di Milazzo a capo di Alcamo. L’uomo fu sostanzialmente obbligato a fornire supporto logistico per l’attentato, ndr]. È stata una cosa da dilettanti, per organizzare una cosa del genere bastava una persona che sapesse cosa fare. È stato un modo per suicidarsi, il suicidio di Cosa nostra al comando di Totò Riina. Queste non sono operazioni serie.
Cioè i mafiosi sarebbero stati degli “utili idioti”?
Bravissimo, i capri espiatori... Totò Riina e chi gli stava vicino sono stati dei capri espiatori.
E non credi che se Milazzo avesse invece accettato di prestarsi al gioco di frange deviate dei servizi, l’esito sarebbe stato identico? Cosa nostra si sarebbe avviata ugualmente al suicidio?
Questo in effetti non saprei dirlo. Probabilmente se Milazzo avesse accettato di compiere le stragi, la storia della mafia sarebbe stata diversa. Al posto di Riina al vertice ci sarebbe stato lui, magari Bagarella, Brusca, ecc. sarebbero stati eliminati. Ma sono tutte supposizioni.
O magari il clan Milazzo avrebbe compiuto le stragi e poi sarebbe stato decimato dai suoi stessi committenti...
È un’ipotesi valida. Ma anche qui siamo sulle supposizioni.
Tornando agli “utili idioti”, dev’esserci stato necessariamente qualcuno a tirare i fili delle marionette. Tu parli nel tuo libro di “mafia impropria”, cosa intendi?
Io parlo di mafia impropria e quando dico questo mi riferisco a un potere molto, molto arzigogolato e articolato, che si approfitta dei poteri conferitigli dallo Stato, ma in grande scala. Ritengo che quello di infangare la mafia sia stato un progetto attentamente pensato. Fino a quell’epoca [1992/93, ndr] nei principi del mafioso non c’era quello di ammazzare i bambini.
Ti riferisci all’omicidio di Giuseppe Di Matteo? Il bambino di 12 anni rapito, tenuto in ostaggio dal 23 novembre 1993 fino all’11 gennaio 1996, quando venne strangolato e sciolto nell’acido? Il bambino che tu – come racconti nel libro – avevi individuato segnalandone invano la prigione alle forze dell’ordine?
Si, Giuseppe Di Matteo, che è stato ammazzato platealmente. Ma scherziamo? Cosa avrebbe potuto portare di bene a Cosa nostra? Riflettiamo un attimo. Cosa nostra non è un potere dove ci sono solo Brusca, l’ “ammazza-cristiani”, o Giuseppe Ferro, un analfabeta. Attenzione, chi comanda davvero, chi riesce a gestire Cosa nostra non è cretino. Siamo abituati a vedere solo i mafiosi analfabeti, i dementi, ma io ho conosciuto persone come Nino Gioè, che era un grandissimo stratega, una personalità incredibile. Un signore nei modi, lasciamo stare che era un criminale e un killer, ma tu non l’avresti mai detto. Gioè si avvicina a me perché capisce che non sono un sanguinario, che salvo vite umane.
Stai dicendo che, in qualche modo, c’è stata una strategia volta a favorire l’ascesa dell’ala sanguinaria di Cosa nostra, quella che tu definisci dei “dementi”, a discapito invece di uomini più “politici” o comunque inclini alla trattativa, come potevano essere un Gioè o un Milazzo?
In parte sì, anche se Gioè in fin dei conti si è prestato a quel gioco e poi ne ha pagato le conseguenze. Comunque è un dato di fatto: da un certo momento in poi Cosa nostra è stata governata da perfetti idioti. Sempre riguardo la strage di via dei Georgofili e in generale le bombe del 1993... ti sembra possibile che a scegliere quegli obiettivi siano stati Riina e i suoi? È fin troppo evidente che ci sia stata una regìa occulta di quelle che vengono definite “menti raffinatissime”. È un dato di fatto. Per non parlare della strage di Capaci. Un’operazione militare di altissimo livello, che non sarebbe stata possibile senza dei manovratori esterni.
Di quali manovratori stiamo parlando?
Non è da me fare supposizioni...
Passiamo oltre. Nel libro - ma anche nelle sedi competenti - hai parlato di questi incontri tra due uomini dei servizi segreti e Vincenzo MIlazzo. Ti sono mai stati sottoposti degli identikit, delle fotografie? Hai mai potuto ricondurre dei nomi a quei volti?
Io li so i nomi. Li ho dati in procura e sto vedendo cosa fanno.
Sono entrambi in vita?
Uno di loro si. Me lo ricordo, ho avuto la sfortuna di incontrarlo successivamente.
In un libro-intervista uscito qualche tempo fa, Franco Di Carlo, cugino di Nino Gioè che – lo ricordiamo – è morto impiccato in carcere, sostiene di essere stato più volte avvicinato nel corso degli anni, proprio come suo cugino, da uomini dei servizi segreti. In particolare, con uno di loro si è ritrovato in diverse situazioni: si tratta di Mario Ferraro, colonnello del Sismi, anche lui trovato impiccato in casa sua nel luglio del 1995. Impiccato a un termosifone con i piedi che toccavano terra. Ricordi di averlo mai incontrato?
Uscendo spesso con Gioè ne vedevo tanti di questi personaggi. Non mi pare di averlo mai sentito nominare.
Sempre nel libro parli di una donna della Dia con cui avresti effettuato un appostamento per liberare il piccolo Di Matteo e che, successivamente, hai visto in compagnia di quello che poi avresti scoperto essere Giovanni Aiello, più conosciuto come “Faccia da mostro”. Di lei conosci il nome?
No, né l’ho mai vista esposta sui media, come invece è successo con Aiello.
Territorio di Trapani, Alcamo. Si è tornati recentemente a parlare di questa zona della Sicilia in relazione alla presenza occulta e pervasiva della struttura semi-clandestina Gladio. Hai mai sentito nominare il Centro Skorpione?
No, so solo che hanno tentato di buttarla in quel posto a Gladio. In tutto e per tutto. Hanno cercato di mettere Gladio in mezzo a tante cose, ma secondo me è solo un grande depistaggio. Tutto ciò che è accaduto ad Alcamo in quel periodo è stato uno scontro tra polizia e carabinieri. E hanno cercato di fottere Gladio, usandola come capro espiatorio. Ma così non si arriva alla verità.
Tu hai conosciuto il gotha mafioso, hai vissuto e lavorato ad Alcamo, che si trova nel trapanese. Mi sarei aspettato almeno di sentirti nominare nel libro Matteo Messina Denaro. Non l’hai conosciuto?
Assolutamente no.
Che interpretazione dai alla sua lunga latitanza?
Non si vuole prendere. Non si deve prendere. Io sarei il primo a non collaborare per prenderlo. Perché rompere gli equilibri, chi ci dice che non possa nascere un nuovo Totò Riina?
Che intendi dire?
Nel trapanese non si ammazza più, c’è ordine, la gente sta bene. Perché devi rompere questo equilibrio? Per farla pagare a un uomo solo? Ubi maior minor cessat.
Eppure nel 2018 un ex poliziotto, Antonio Federico, in un’intervista rilasciata proprio a Stefano Santoro sostiene che tu gli avessi promesso di fargli catturare un latitante di grosso calibro, che lui intese essere Messina Denaro...
Era una sua supposizione, se ne occuperà l’autorità giudiziaria.
Torniamo un attimo su Antonio Federico, di cui ci siamo largamente occupati nei mesi passati. Federico in un suo libro racconta di essere stato avvicinato nel 1993 da una misteriosa fonte, tale Mark, un uomo che – secondo la sua ricostruzione – apparteneva proprio a Gladio. Questo Mark gli fa compiere alcune operazioni, tra cui la perquisizione in casa di un carabiniere, dove viene trovato un arsenale di armi e dove, in una libreria, viene trovata la foto in cui, quasi trent’anni dopo, si è riconosciuta Rosa Belotti, imprenditrice di Bergamo sospettata dalla procura di Firenze di essere la “biondina” delle stragi del 1993. Nel tuo libro sostieni che Mark fosse un tuo uomo, sulla base di cosa puoi affermare ciò?
Preferisco non rispondere.
Su quella foto ritrovata in casa del carabiniere? Puoi dirci qualcosa?
È un depistaggio. Antonio Federico è acerrimo nemico di La Colla e Bertotto [i due carabinieri coinvolti nel ritrovamento dell’arsenale, ndr], ha cercato, come si dice in Sicilia, di fare tragedia, però... spero di poterti dare risposte più certe tra qualche mese... mi sono interessato a questa situazione. Intanto ti posso dire una cosa: fin quando non sarà riconosciuta l’esistenza della “mafia impropria” non cambierà nulla, i segreti rimarranno sempre tali.
Voi che siete giovani vi dovete battere su questo politicamente, sui giornali, io ormai sono al capolinea. E vedrai che ci saranno i primi collaboratori di giustizia di Stato. Ci saranno i primi magistrati che collaboreranno finalmente con la giustizia. Io non ci sarò più, ma tu forse ricorderai queste parole.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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