L'ammiraglio smonta i buonisti: "Un blocco navale per fermare i migranti"

Intervista all'ammiraglio Nicola De Felice, autore del libro Fermare l’invasione. Le ragioni del blocco navale

L'ammiraglio smonta i buonisti: "Un blocco navale per fermare i migranti"

"Questo libro nasce in gran parte dal dolore che ho provato quando, quale Comandante marittimo della Sicilia, coordinai il recupero a terra del peschereccio egiziano inabissatosi il 18 aprile 2015, non lontano dalle coste libiche. Sollevato dal fondo del mare dopo 15 mesi, il barcone fu trasportato ad Augusta con ciò che restava di circa 900 cadaveri di migranti illegali". L’ammiraglio di divisione (r) Nicola De Felice, classe 1958, si sofferma in silenzio un istante, raccontando quei tragici giorni e il libro che ha scritto da poco. Ha grande esperienza e una carriera militare di prim’ordine, ma certi ricordi rimangono indelebili. Due volte laureato, una vita imbarcato sulle navi della Flotta militare italiana, dopo il comando delle più̀ prestigiose unità della nostra Marina, ha avuto incarichi di grande prestigio: responsabile dello sviluppo di programmi missilistici e di munizionamento di precisione a lunghissima distanza; direttore del Centro Innovazione della Difesa e responsabile dei Centri di eccellenza nazionali della Nato. Dalle tante esperienze vissute nel Mar Mediterraneo è nata una pubblicazione, Fermare l’invasione. Le ragioni del blocco navale.

Ammiraglio, un titolo che ipotizza decisioni drastiche…

"È assolutamente necessario un intervento mirato teso a risolvere alla radice il problema dell'immigrazione clandestina. La soluzione, può essere l’attuazione del cosiddetto 'blocco navale', inteso non come un blocco di stampo bellico ma un intervento di interdizione navale, mirato al blocco delle partenze dei barconi legati alla tratta degli esseri umani. Se fosse stato attuato dall’inizio, il 'blocco navale' avrebbe evitato la morte di migliaia e migliaia di persone, tra cui molti bambini".

Esponenti politici nazionali ed europei hanno parlato della sua inapplicabilità sia per motivi di diritto internazionale sia per difficoltà nella sua applicabilità...

"Il termine 'blocco navale' è stato frainteso da molti e da alcuni strumentalizzato. La mia idea, che spiego dettagliatamente nel libro, si riferisce a un'interdizione navale come misura selettiva che si dedica solo ed esclusivamente al trasporto di migranti clandestini che partono da porti ben definiti; ora questo tipo di approccio non è certamente quello previsto degli articoli 50, 51 e 52 della Carta delle Nazioni Unite che è quello che invece si usa in tempi di guerra. È una cosa che si fa già oggi e in altre operazioni militari e civili gestite dalla Ue, in particolare faccio riferimento all''Operazione Atalanta' che riguarda il mare di fronte alla Somalia, un'area molto vasta, che dal 2008 ad oggi già prevede l'intervento di navi militari europee nelle acque del Corno d’Africa, Golfo di Aden e Oceano indiano. È un’operazione tesa a neutralizzare la pirateria verso le navi mercantili, a cui partecipano oltre alle navi europee anche unità navali militari di Cina e Giappone".

Questa basterebbe a bloccare un afflusso che proviene da diverse direzioni?

"È una misura da unire a ciò che ha proposto da tempo dall'onorevole Meloni e cioè un’azione di contrasto dei flussi della tratta dei migranti in terra ferma, questa è una parte molto importante. Bisogna pensare ad un approccio che io chiamo di 'strategia diretta globale' molto più ampia del 'blocco navale'. Questa prevede l’impiego di strumenti diplomatici, economici e di intelligence, per un piano di accordi di sorveglianza ma anche di sviluppo dei Paesi dell’altra sponda del Mediterraneo. Possiamo fermare la tratta criminale di queste persone se creiamo sviluppo economico nei loro Paesi e nei Paesi da cui partono. Le morti in mare si azzerano se si evitano le partenze e se gli hotspot in terra africana sono finanziati, gestiti e controllati dalle forze europee, in collaborazione con le forze locali. Un impegno più massiccio e mirato sul suolo africano da parte dell’Unione europea è indispensabile, ovviamente con il consenso del governo locale".

Fattibile, quindi?

"Nel 2008, il trattato di amicizia con la Libia, fatto dall'Italia con il governo Berlusconi, indicò la possibilità di effettuare un pattugliamento misto della nostra Guardia di finanza con le forze dell'ordine libiche dotate di motovedette. Se uno va a vedere i dati degli sbarchi in Italia di quel periodo, emerge che abbiamo raggiunto i minimi storici perché quel tipo di attività di pattugliamento misto, nelle acque territoriali libiche, funzionava in maniera egregia tant'è che furono azzerate le partenze. Ovviamente c'erano anche altri aspetti da considerare, come ad esempio l’investimenti italiano di circa cinque miliardi di euro nella ricostruzione del Paese con ditte italiane. Oltre la possibilità di attuare, attraverso satelliti e sistemi di sorveglianza, il controllo delle coste libiche, proprio per evitare le partenze clandestine. Tutto questo ha funzionato, dopo arrivò nel 2011 la guerra in Libia, con la storia che conosciamo, innescata da un altro Paese europeo per suoi interessi…e tutto cambiò".

Alcuni porti di Paesi sovrani del Mediterraneo, più volte, sono stati dichiarati non sicuri per l’approdo dei barconi di migranti. Come mai?

"C’è molta confusione e una certa ipocrisia da parte di un certo filone di pensiero che definisce porti non sicuri luoghi dove attraccano navi da crociera con grandi flussi turistici…La Tunisia, l’Egitto, Malta hanno tutte aree Sar ('Search and Rescue') di competenza, nella cui aree sono tenuti a prestare soccorso e a salvaguardare la vita delle persone recuperate in mare. Chi soccorre ha l’obbligo di rispettare l’area Sar del Paese in cui si trova, non può fare ciò che vuole…".

Si riferisce a qualche caso particolare?

"Mi riferisco al clamoroso gesto di Carola Rackete nel 2019, quando le autorità marittime di Tripoli le dissero di riportare i migranti in Libia, proprio perché in quel caso il competente coordinatore della ricerca e soccorso, era proprio di Tripoli, così come riconosciuto dall’Onu stessa e tecnicamente dall’Imo (International Maritime Organization), braccio esecutivo in mare delle Nazioni Unite. Invece Carola si rifiutò di eseguire l’indicazione e diresse la prora verso l'Italia causando lo speronamento di una unità navale della nostra Guardia di Finanza, vera e propria nave da guerra, mettendo a repentaglio la vita di cinque dei nostri militari. Le motovedette della Guardia di Finanza sono equiparate a navi da guerra senza limitazioni territoriali, nell’espletamento della loro funzione di polizia marittima, così come ribadito più volte dalla Corte Costituzionale e dalla Cassazione penale".

Un elemento non di poco conto…

"Ci sono due cose che vanno chiarite per coloro che non sono esperti, la prima: gli Stati di bandiera delle navi Ong sono coinvolti direttamente nelle loro specifiche responsabilità giurisdizionali in quanto appunto concedono la loro bandiera e quindi la loro giurisdizione e quelle navi. Quando una nave batte una bandiera, ci si deve rivolgere a quella bandiera quindi a quello Stato, per quanto riguarda ogni tipo di problema giuridico. Seconda cosa: lo Stato di bandiera ha la responsabile della protezione individuale dei vari migranti clandestini, nonché dell'eventuale rilascio e dell'asilo politico dei rifugiati riconosciuti a bordo di quella nave perché, in quella nave, il territorio è dello Stato di bandiera a cui appartiene. Le navi che soccorrono, spesso in acque territoriali di stati sovrani mediterranei del nord Africa, non rispettano neanche il trattato di Dublino, portando gli immigrati clandestini altrove; questa è una cosa molto importante che va sottolineata".

Nel suo libro lei auspica la realizzazione del progetto di Enrico Mattei per l’Africa, cosa significa?

"Le migliori energie e i migliori rappresentanti dell'Africa e se ne stanno andando e quindi la stanno impoverendo ulteriormente. Bisogna riprendere quel progetto di Mattei, perché il blocco navale serve anche a difendere i diritti di queste persone che ingannati da falsi miti di benessere, credendo negli specchietti delle allodole di una informazione edulcorata affrontano i viaggi della speranza finendo nelle mani di criminali di ogni tipo. Sono le generazioni più giovani che tentano il viaggio, coloro che si possono permettere di pagare cifre considerevoli, coloro che cercano un futuro migliore togliendo futuro al proprio paese di origine. Il progetto di Enrico Mattei, darebbe molte risposte e molte possibilità alle giovani generazioni africane, creerebbe nuove possibilità commerciali e di sviluppo economico direttamente in terra africana, offrendo ai giovani concrete possibilità di realizzazione sociale, sottraendoli molto spesso ai peggiori gironi danteschi della nostra società".

Anche la situazione africana, non scherza in termini di sicurezza sociale…

"È vero, ma mentre i criminali trafficanti di uomini riciclano i soldi della tratta di esseri umani, in armi e grosse partite di droga, gli uomini, le donne e i bambini che riescono ad arrivare sul nostro suolo, non hanno spesso opportunità e finiscono nelle maglie della nostra criminalità organizzata.

Le donne inviate alla prostituzione, gli uomini impiegati per lo spaccio di stupefacenti, mentre i bambini pagano prezzi terribili: rischiano di finire o nel giro della prostituzione minorile, della microcriminalità oppure nell’inferno del commercio d’organi. Tutto questo è inaccettabile".

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