Lega mina vagante del patto

Mario Draghi non ha ancora sciolto la riserva che già la futura maggioranza inizia a ballare. Niente di preoccupante, ci mancherebbe. Perché di screzi così se ne vedranno e tanti.

Lega mina vagante del patto

M ario Draghi non ha ancora sciolto la riserva che già la futura maggioranza inizia a ballare. Niente di preoccupante, ci mancherebbe. Perché di screzi così se ne vedranno e tanti. Ma, di certo, è la cartina di tornasole di quanta calma e fatica dovrà dedicare l'ex presidente della Bce ai delicati equilibri della politica. D'altra parte, esattamente due giorni fa, è stato proprio Sergio Mattarella a consigliargli di avere «pazienza», perché nessuno ha la «bacchetta magica». E se ha fatto fatica Giuseppe Conte con una maggioranza sostanzialmente omogenea, è probabile che la sfida che ha davanti Draghi sia ancora più complicata. Insomma, il timore è quello di continuare comunque a navigare a vista. Non tanto per la presenza di Forza Italia, quanto per l'annunciato ingresso della Lega che, non a caso, ha fatto andare in fibrillazione Pd e Leu. È anche per questo, forse, che ieri sera sul Colle hanno tirato un sospiro di sollievo quando si è conclusa la carnevalata del voto su Rousseau che ha formalizzato il sostegno del M5s a Draghi. La presenza in maggioranza di tutto il Movimento e dei suoi gruppi parlamentari (di gran lunga i più numerosi) controbilancia infatti una Lega che da molti viene considerata non del tutto affidabile. La svolta impressa da Matteo Salvini al Carroccio, d'altra parte, è stata sì decisa ma anche molto improvvisa. E non è chiaro fino a che punto potrà spingersi il nuovo corso leghista. Soprattutto se, come pare sia nelle intenzioni di Draghi, nei prossimi mesi il suo governo alzerà di molto l'asticella dell'europeismo. È anche per questo che Salvini non entrerà nella squadra di governo, nella quale l'ex numero uno di Bankitalia vedrebbe invece di buon occhio Giancarlo Giorgetti.

Il leader della Lega, ovviamente, ha ben chiaro il clima di scetticismo che lo circonda. Confermato ancora ieri da diverse prese di posizione all'interno dell'ex maggioranza che sosteneva il Conte 2. «Non per il Pd, ma per altri sarà difficile coniugare le proprie esigenze con il programma del professor Draghi», l'ha buttata lì Nicola Zingaretti che, pur non facendo nomi e cognomi, parlava evidentemente a Salvini. Il quale, almeno per ora, non pare curarsi troppo della cosa. «Non vogliono il sostegno della Lega? Bene, allora che lo dicano chiaro», si è sfogato nelle sue conversazioni private. È evidente, però, che le acque all'interno della futura maggioranza sono agitate già prima che la navigazione abbia inizio. Tanto che a sera Salvini non si fa scrupolo di aprire un fronte polemico con il M5s. Con un informale «fonti Lega», infatti, l'ex ministro dell'Interno fa sapere che «preoccupa la spaccatura nel Movimento dopo il voto degli iscritti a proposito del governo Draghi» e, vista la situazione, rivendica il ruolo di Lega e Forza Italia che «è ancora più importante». Il leader della Lega, insomma, gira il coltello nella ferita, perché è evidente che la vittoria dei «sì» sulla piattaforma Rousseau con «solo» il 59,3% avrà ripercussioni, magari non tanto sui gruppi parlamentari ma certamente sul partito. Insomma, non proprio l'inizio che si attendeva Draghi, fermamente convinto che solo la «coesione» tra le diverse forze che sosterranno il suo esecutivo potrà portare a risultati concreti.

D'altra parte, sono giornate non facili per la politica. Con i leader dei diversi partiti in attesa spasmodica davanti al telefono, neanche fossero tanti quindicenni alle prese con la prima cotta. La domanda che rimbalza tra i diversi big pronti a sostenere il nuovo governo è infatti solo una, ripetuta come un mantra per tutta la giornata: «Ma ha chiamato o no?». Il premier incaricato, infatti, sta continuando a muoversi con una discrezione che sconfina nel riserbo assoluto. Al punto che nonostante sia atteso per questo pomeriggio il passaggio al Quirinale per sciogliere la riserva, i leader della futura maggioranza non sarebbero stati ancora contattati e, dunque, «coinvolti» nell'indicazione dei ministri. Perché, se è vero che l'articolo 92 della Costituzione stabilisce che sia il premier a «proporre» i ministri che vengono poi «nominati» dal capo dello Stato, è pure innegabile che la prassi prevede che siano i partiti - e dunque i loro leader - a fare la sintesi tra le possibili scelte all'interno dei loro perimetri. Per capirci, se ci saranno due ministri del Pd è nelle cose che abbiano il placet di Zingaretti. Non tanto per una sorta di manuale Cencelli interno alle segreterie, quanto perché - attraverso i loro parlamentari - sono proprio i partiti che votano la fiducia e che poi sostengono il governo nei successivi voti parlamentari.

È necessario, dunque, che vi sia una sintonia e che le scelte non vengano imposte. Eppure, a ieri sera, tutti o quasi i leader lamentavano di non essere stati ancora coinvolti. Circostanza, forse, più vera per alcuni che per altri.

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