L'errore di chi confonde le differenze con la "diversità"

Parlare di Alain Finkielkraut in Francia significa schierarsi

L'errore di chi confonde le differenze con la "diversità"

Parlare di Alain Finkielkraut in Francia significa schierarsi. Se sei d'accordo con Finkielkraut, sia pure su un singolo argomento, ti trovi a far parte di un gruppo che pensa e dice tutta una serie di cose che un altro gruppo depreca e condanna, e questo ti segnerà, ti infetterà. Non succede solo in Francia. Esiste un tipo di infettività che oltrepassa le emergenze sanitarie quanto le esplosioni mediatiche: una specie di sordità selettiva e degenerativa che comincia con ciò che non ci interessa per estendersi - è cronaca - a tutto il resto. Insomma, leggi Finkielkraut? Allora sei di destra, sei con la Le Pen, sei con Zemmour.

Ciò nonostante, io sono convinto che leggere Finkielkraut, accettandone anche le intemperanze, sia una buona cosa (per tutti, anche per i suoi nemici) per la ragione opposta: la lucidità tutta illuminista con la quale questo grande allievo di Roland Barthes ci aiuta a riconoscere le trappole culturali: anche quelle di chi si vorrebbe suo compagno di strada.

Il suo ultimo libro, uscito in Francia e di prossima pubblicazione in Italia, ha per titolo L'après littérature, ossia «La post-letteratura» (Stock, pagg. 230, euro 19,50). Il libro è come sempre molto «francese», si riferisce a fatti di cronaca a noi spesso ignoti e va letto tra le righe.

Tema centrale è, secondo me, lo smarrimento del senso delle parole. La prima di queste parole è «differenza». Parola difficile, pericolosa, impossibile da maneggiare fuori da un serio esercizio del pensiero. La società è fatta di differenze: io non sono te, e il «noi» è un equilibrio difficile, del quale il nostro tempo sembra del tutto ignaro, nel nome di sentimenti indiscutibili. La differenza discrimina, eccome.

«Il nostro tempo, sganciato dalla saggezza degli Antichi, non conosce altra legge del proprio stesso slancio compassionevole». Alla difficile «differenza» subentra la facile «diversità», debole di pensiero e generatrice di diktat morali. La cultura che la nostra civiltà ha generato non viene più interrogata, celebriamo Dante e Shakespeare, Eschilo o Rembrandt senza chiedere loro nessun lume.

La ragione è semplice e terribile: «Essi non hanno bisogno di compiere un lungo percorso per accedere alla verità, perché sono convinti di possederla già». In America la chiamano cancel culture. Una sottile linea nazista, alimentata dall'ignoranza, attraversa gli opposti schieramenti. La Storia non ha nulla da insegnarci, siamo noi i suoi giudici. In nome del tutto è cultura si cancella la cultura, si aboliscono le gerarchie, si eliminano i maestri.

Diverse pagine del libro sono dedicate alla battaglia per l'emancipazione femminile. Dove sta il nemico? Non tanto nei contenuti di una battaglia sacrosanta, ma nel presunto unanimismo, che produce un discorso povero (anche sul piano linguistico) e urlante.

La ragione si presenta come economica: tutto deve essere ridotto a qualcosa che si possa comprare e vendere. Il me too (fatti salvi gli aspetti penali) appartiene, come molte altre cose - io ci metto anche il sovranismo - a questa legge mercantile. Il problema è però ideologico, non economico. La riduzione del mondo (e delle sue infinite differenze, che secondo Aristotele costituiscono la fonte stessa dell'umana conoscenza) a qualcosa che si possa acquistare o vendere (compreso l'utero di una donna) non riguarda in primis i soldi, ma il pensiero.

La ricchezza degli Antichi era melanconica: si poteva acquistare la bellezza di un fiore, il suo profumo, il sorriso di un bambino? Ma il principio ideologico ha azzerato la poesia e la bellezza, anche se celebriamo Dante dalla mattina alla sera. La poesia del mondo è cosa da boomer, le parole d'ordine sono: tutela del pianeta, biodiversità, green eccetera. Tutte parole negoziabili, inseribili in un'agenda internazionale: a differenza dei gelsomini.

Ciò che resta fuori da ogni agenda? Che so, la crescita della fame nel mondo, il destino di popoli interi rimasti senza patria, la situazione dei vaccini nei Paesi poveri, e così via.

La nostra civiltà - dice Finkielkraut - ha eretto, contro la barbarie, due grandi baluardi: il Diritto e la Letteratura. L'uno e l'altra celebrano la Differenza - che comprende l'assoluta unicità di ogni singolo essere umano, la sua difficile giudicabilità, e la complessità dei corpi sociali. E l'uno e l'altra sono oggi in pericolo di estinzione sotto i colpi di un egualitarismo cieco.

Torna in mente Le urla del silenzio (1984) il film di R. Joffé, dove la furia ideologica dei khmer rossi giunge ad affidare ai bambini il ruolo di sorveglianti per catturare negli occhi delle persone anche il più piccolo bagliore di ribellione. Perché ai bambini? Perché non hanno memoria, non hanno passato, e quindi non hanno pietà.

Eppure, anche il nuovo mondo che sta sorgendo conosce le sue débâcles. Nonostante tutto, esso non procede compatto verso un futuro ecologico, paritario, green. E non per colpa di tutti i no-qualcosa che popolano il mondo, non per il rancore di chi non ha ricevuto dalla società un senso per cui vivere, e nemmeno per l'egoismo dei ricchi, ma per una contraddizione insita nel modello stesso.

Ne parla Finkielkraut a proposito delle pale eoliche. Le pale eoliche, deturpando l'ambiente che dovrebbero proteggere, sono il simbolo di una specie di nemesi del mito del Progresso, il sogno nato con «Cartesio e Bacon di renderci padroni e dominatori della natura per sconfiggere la fatalità e le miserie del genere umano».

Il brusio profondo del lavoro umano è sublime «nel suo sforzo concertato affinché la Terra non sia più una valle di lacrime (...) Ma ai nostri giorni, osserva il filosofo francese, la terra implora pietà mentre il cielo fa quello che gli pare. Più la tecnologia è performante e più l'avvenire è buio. Ieri vittorioso, il Progresso si è fatto compulsivo e incontrollabile. Tutto funziona e, a un tempo, tutto deraglia. Tutto dipende dall'uomo, perfino il meteo, e niente va come lui vorrebbe. La natura entra nella Storia, e non è una buona notizia, perché la locomotiva della Storia non ha più qualcuno che la guidi».

Chi sia questo «qualcuno» non sappiamo. Certo non è un leader politico, o un guru informatico. Forse, più modestamente, è quel riferimento ad Altro (il totalmente-altro, come lo chiamava Horkheimer) che la creazione di una città totalmente terrena, senza riferimenti oltre sé stessa (a dispetto di tutte le chiese, le moschee e le pagode) ha sempre cercato di cancellare, e che la poesia e l'arte non fanno che ripetere ad orecchie sempre più sorde.

Nel suo ultimo romanzo, citato da Finkielkraut, Nemesis, Philip Roth racconta di un uomo colpito da un dolore inaccettabile. Ma la delusione verso un Dio che non risponde all'assurdità dell'esistenza si trasforma in una delusione ancora più profonda: verso se stesso.

Abbiamo abbattuto Dio per innalzare l'Uomo, con la sua pretesa di chiarire tutto, di prevedere tutto, di spiegare tutto.

Ne siamo usciti presuntuosi, violenti e soprattutto vuoti. Ci resta quello che Musil chiamava «il principio di ragione insufficiente»: ossia «la restituzione agli eventi del loro carattere fragile, fortuito, intempestivo, aleatorio».

E questo, forse, riapre tutti i giochi.

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