Se Silvio Berlusconi alla fine rinuncerà a candidarsi per il Quirinale, sarà solo per salvaguardare l'interesse del Paese, per dimostrare ancora una volta che le sue legittime ambizioni vengono sempre dopo l'Italia. Perché il Cavaliere trova «ingeneroso» e «ingiusto» essere additato come «divisivo» dopo che per dieci anni ha garantito la stabilità e la governabilità. Un senso di responsabilità che gli è costato anche in termini di voti e che oggi è stato ripagato con la solita campagna di intimidazione dentro e fuori la penisola.
Dentro da una sinistra che, malgrado sia a corto di consensi e divisa come non mai, reitera i vecchi metodi della delegittimazione, dell'anti-berlusconismo di maniera con cui copre un vuoto di contenuti. Fuori dalle solite pressioni che ricordano, in scala minore, quelle che portarono alla crisi del suo governo nel 2011, ma che in questa edizione assumono dei connotati quasi caricaturali: prima i vari Financial Times, Bloomberg, Economist hanno appoggiato l'ipotesi che Mario Draghi restasse a Palazzo Chigi; ora al grido «contrordine mercati» perorano l'idea che vada al Quirinale. Viene da piangere perché ci trattano come il Paese di Pulcinella. Un dato su cui dovrebbe riflettere chi come Giorgia Meloni teorizza un presidente patriota (sempreché non sia solo retorica) e chi come Matteo Salvini si appella tutti i giorni all'italianità.
Già, proprio loro dovrebbero essere grati a Berlusconi per la battaglia che ha portato avanti, perché un domani lo stesso armamentario e la stessa campagna intimidatoria sarà messa in campo - non ci vuole fantasia nel prevedere i comportamenti di certi mondi - contro il «sovranista» Salvini o la «fascista» Meloni. E, invece, da giorni chiedono vertici e di sapere numeri e nomi: pretesa infantile in frangenti di questo tipo, che un tempo avrebbe fatto ridere a crepapelle qualunque capocorrente democristiano alle prese con l'elezione del capo dello Stato.
Per cui certo sarebbe meglio che il Cavaliere scendesse in campo alla quarta votazione per tentare la sua corsa e, contemporaneamente, se non fosse eletto, verificare sulla sua candidatura l'unità del centrodestra. Un centrodestra che forte dei suoi numeri, se non ci fossero defezioni e doppi giochi, a quel punto, potrebbe dare le carte in questa partita. Sarebbe meglio, appunto, ma non si può pretendere che Berlusconi combatta sempre da solo questa battaglia, subendo addirittura la diffidenza o l'assenza di collaborazione dei suoi stessi alleati.
Quelli che paradossalmente dovrebbero spingerlo a tentare l'impresa. Anche perché nella mente del personaggio l'interesse del Paese viene prima di tutto. Insieme a quello dell'alleanza che ha fondato e alla quale, magari unico, ancora crede.
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